Giustizia

Processo di morti

Processo di morti

Si attende la sentenza d’appello che riguarda Bruno Contrada, un uomo della polizia, un protagonista delle indagini contro la mafia, ora accusato di mafia e che, da presunto innocente, ha già scontato un carcere lungo e devastante.

Il processo di primo grado si concluse con la sua condanna: Contrada fu giudicato colpevole di gravissime collusioni con la mafia. Un processo nelle mani dei morti. Già, perchè in aula si presentarono 150 servitori dello Stato vivi. Fra loro capi della polizia, ministri, alti commissari, direttori dei servizi, carabinieri, poliziotti, finanzieri, tutti per dire che Bruno Contrada era stato non solo un fedele servitore dello Stato, ma anche uno dei più bravi ed efficienti. Il tribunale non ha voluto credere loro.

In compenso credette ai morti. Quelli che affermano la mafiosità di Contrada sono tutti morti, e la loro anima, assai probabilmente dannata, è stata processualmente evocata da colleghi criminali, pluriomicidi con patente di pentiti i quali hanno affermato di aver sentito dire da questo o quel morto che, effettivamente, quel Contrada lì era al servizio degli interessi mafiosi.

I mafiosi morti sono stati giudicati credibili, i servitori dello Stato vivi, invece, no. Sarebbe bene che le 1742 pagine della sentenza potessero essere lette da un pubblico più vasto, il quale, così, potrebbe trarne fondati elementi d’irrimediabile sfiducia nello Stato.

Perché, delle due l’una: o quella sentenza non sta in piedi e quella condanna è terribilmente ingiusta; o lo Stato è rappresentato e difeso da 150 scemi (se non peggio) che non si sono accorti di elogiare un delinquente.

I mafiosi morti sono più credibili anche dei mafiosi vivi, ma solo per un motivo tecnico. Il tribunale ha acutamente osservato che un mafioso che smentisce le dichiarazioni di un pentito (il quale riferisce ciò che gli avrebbe detto un morto) non è credibile in quanto indagato in procedimento connesso, e, pertanto, interessato per definizione a smentire la verità dei fatti. Bella logica, non vi pare? Così matura il quadretto che Enzo Battaglia descrive nel brano che riporto (tratto dal suo “L’Intrigo”, edito da Rubbettino) “In teoria potrebbe succedere che un Tizio venga condannato di omicidio sol perché l’accusa è partita da un Caio. Omicidio di un Sempronio. Il Tizio è tranquillo e garantisce di non aver mai ucciso nessuno, tantomeno quel Sempronio di cui vuol vedere almeno il cadavere. Si cerca. Si ricerca. Non c’è alcun cadavere, tantomeno di nome Sempronio. Ma il Caio nell’accusare si è spinto in particolari ben precisi, come la data dell’omicidio, il luogo dell’omicidio, il medico legale chiamato da lui stesso a certificare l’omicidio… Il Tizio continua a professarsi innocente e chiede di sentire i testimoni dell’omicidio, il medico legale chiamato da lui stesso a certificare l’omicidio. I testimoni negano. E quando e dove sarebbe stato commesso quest’omicidio? In questo posto e in questa precisa data. In questo posto Tizio ogni tanto ci va perché vicino a questo posto ha casa e poiché ci ha casa, è probabile che in questa data sia stato a casa.

“Non è certo che proprio in questa data sia stato in questo posto o in altro vicino, ma il fatto che in questa data sia stato a casa e che in questo o altro posto vicino ogni tanto ci va, rende Tizio compatibile ad essere stato in questo posto e in questa data. E il medico legale chiamato a costatare il morto assassinato? Non lo si trova data l’impossibilità di trovare un medico tra tantissimi medici che esercitano la professione. E Tizio viene riconosciuto assassino, senza il morto, senza il luogo, senza le armi, senza il movente, senza i testimoni, senza il medico legale che abbia attestato magari un fantasma di cadavere. Solo in forza dell’accusa di un Caio, che, nel caso specifico potrebbe essere un Pietro Scavuzzo, del quale la sentenza di primo grado del processo Contrada, pag. 1079, dice ?un primo indice di affidabilità delle notizie riferite dallo Scavuzzo deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli uomini d’onore del trapanese con i quali è stato in contatto’. Come dire che la credibilità la si misura in proporzione agli omicidi commessi e in rapporto allo spessore dei criminali che si frequentano. Come a dire, se uno frequenta semplici quaquaraqua, mette in pericolo la sua credibilità, mentre la perde completamente se ha per amici e compagni solo uomini onesti e timorati di Dio. (…) In conto proprio o in conto terzi, Pietro Scavuzzo, formalmente affiliato a Cosa Nostra nel 1982, dopo essere uscito dal carcere dove aveva scontato una pena di circa quattro anni di reclusione, entrato nel novero dei pentiti nel dicembre 1993, imbastisce una vicenda sulla valutazione di un’anfora antica che non esiste.

“Detta anfora viene valutata da un certo esperto archeologo, il quale, non identificato e non esistente, è stato a sua volta presentato allo Scavuzzo da un cittadino svizzero di nome Ludwing, anch’esso non identificato e non esistente. La valutazione di detta anfora inesistente viene fatta tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 1991 in un appartamento di via Roma a Palermo, non indentificato e pertato inesistente, presenti il pentito Scavuzzo, il dott. Bruno Contrada, il non esistente esperto archeologo, il mafioso trapanese Mazzara Pietro del quale la moglie nel 1991 denunziò la scomparsa per lupara bianca, il latitante mafioso trapanese Musso Calogero, tutti fatti accomodare nel predetto inesistente appartamento di via Roma da una donna 55enne non identificata e pertanto inesistente. Ad agitare le acque di questa piatta ed amorfa vicenda interviene inaspettatamente il mafioso Musso Calogero, il quale sbugiarda con sdegno baracca e burattini. Musso, però, evidenzia l’handicap di essere imputato di reato connesso e, soprattutto, di deporre in favore del Contrada. A questo punto entra in scena il Tribunale che, deus ex machina, trovandosi in mano solo il racconto fantasioso dello Scavuzzo e gli impegni di un impianto accusatorio, dinanzi ad un’anfora che non esiste, ad un Ludwig e un esperto archeologo che non esistono, un appartamento e una donna 55enne che non esistono, un Mazzara Pietro probabilmente fantasma e un Musso Calogero reso inesistente dal reato connesso, accredita la veridicità della vicenda.

“A rendere quasi farsa la commedia ci pensano i delegati alle indagini della D.I.A. e dei C.C., i quali comicamente si sobbarcano a lunghe ed infruttuose indagini, invece di afferrare subito per il collo il collaborante Pietro Scavuzzo ed obbligarlo a collaborare sul serio, facendo identificare i non identificati, trovare l’inesistente, comparire gli scomparsi. Solo che, così facendo, non sarebbe stato possibile accreditare la fantasia dello Scavuzzo, con la geniale trovata che ?non è detto che non esista ciò che non è stato possibile identificare e trovare'”.

Così vanno le cose, e quelle incredibili 1742 pagine che pendono dalle labbra di strangolatori riferenti la presunta opinione dei morti sbugiardano i vivi pagati dallo Stato per perseguire i criminali, contengono non poche di queste inestimabili perle. Ultimata la loro lettura si resta con la sicura impressione di non avere capito perché Bruno Contrada sia colpevole. Noi, poi, non conoscendolo di persona siamo pure disposti a credere che sia colpevole, ma da quella lettura proprio non capiamo come lo si sia accertato.

Bruno Contrada, del resto, conosce il suo ambiante, ed il 2 marzo 1995, mentre si trovava nel carcere militare di Palermo, annotava fra le sue carte: “Andreotti rinviato a giudizio. Sarà giudicato dalla V Sez. penale del Tribunale di Palermo, presidente dott. Ingargiola, il mio Tribunale. Questo rinvio a giudizio è il preludio della mia condanna: i pentiti non possono, non debbono essere smentiti!”. Se avessimo conosciuto allora questa riflessione di Contrada l’avremmo sottoscritta. Dopo la lettura della sentenza di primo grado la sottoscriviamo due volte. Ma poi è successo un fatto singolare: Andreotti è stato assolto, i pentiti sono stati smentiti, l’impianto accusatorio è crollato.

Adesso, con il giudizio di secondo grado su Contrada, sapremo se questo poliziotto siciliano andrà a doversi aggiungere alla collezione delle vittime di una giustizia ingiusta, o resterà il preludio di un’incompiuta.

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