Ma vi pare possibile che l’Italia continui a stare sui giornali del mondo, ora anche su quelli di Santo Domingo, per questioni relative a giustizia e intrallazzi? Il mondo è pieno d’italiani che si fanno onore e si distinguono, ma tutti sono inseguiti da un vociare scomposto che dal loro Paese s’espande per il globo, ottenendo il solo risultato di creare loro imbarazzi. E c’è poco da lamentarsi per le speculazioni giornalistiche, assai spesso non disinteressate e pronte a colpirci nelle nostre debolezze, perché questo pasto avvelenato è preparato e servito dalle cucine di casa nostra.
La causa di tale scempio risiede nel non funzionamento della giustizia, che allunga all’infinito i procedimenti e rende sospettabili e infamabili anche gli innocenti. La colpa di ciò ricade su un mondo politico, senza distinzione di schieramento, che non è stato capace di rimediare. Vuoi perché intento a speculare, vuoi perché occupato a difendersi, in ogni caso inadempiente rispetto al primo dovere: dotarci tutti di una giustizia che non sia il megafono delle vergogne. A questo s’aggiunge una divisione faziosa, che si concentra sulle malefatte, vere o presunte, piuttosto che su idee e programmi, intenta non a battere, ma ad annientare l’avversario. Di questo ciascuno di noi porta parte della responsabilità, compresi noi garantisti reietti, che lo scriviamo da anni ma non riusciamo a farci valere.
L’inesistenza della giustizia favorisce costumi a dir poco opachi, scandali con i quali si convive anziché risolversi. I lettori di questo giornale sanno del disagio con cui ho (seppur raramente) scritto del caso Fini. Non dei suoi aspetti istituzionali e politici, sui quali ho argomentato idee nette, ma di quelli legati al presunto malaffare della casa monegasca. Anche per il presidente della Camera, come per ogni cittadino, vale il principio non solo della presunta innocenza (che è penale e sancita dalla Costituzione), ma anche quello della presunta onestà. Non se ne può più del giustizialismo accampato fuori dai tribunali, quale che sia il colore della tenda. Ma neanche se ne può più della meschina furbizia di approfittare del collasso della giustizia per fare marameo al diritto.
Fini ha detto che quando tutto sarà noto (ma quando?) ci sarà da ridere. A me, ora e allora, sfugge il lato comico. Ma chi ricopre cariche pubbliche non ha solo il dovere di non delinquere e non evadere le tasse, evitando di favorire chi lo fa, che abbiamo tutti, ha anche quello della trasparenza. E qui le cose sono semplici e lineari: se la casa monegasca è stata venduta ad una società creata nell’interesse di un quale che sia congiunto, amico o conoscente del capo del partito che l’ha venduta, si tratta di uno scandalo. C’è un modo per non stare sulla graticola, per tornare a un confronto, anche duro, ma politico: Fini chieda al fratello della sua compagna, e a ciascuno che gli sta intorno, di liberare i fiduciari da ogni vincolo di riservatezza, chieda che gli amministratori di quelle società siano liberati dal segreto per tutelare il quale sono pagati e dichiarino se la proprietà è riconducibile a Tizio o a Caio, chieda alle autorità straniere che devono rispondere alle rogatorie di collaborare e rivelare subito se ci sono interessi a loro riconducibili. Non si farà avanti nessuno? Benissimo, vorrà dire che non ci sono interessi occulti da nascondere e questa storia sarà finita.
Vale per lui e vale per ogni altro che abbia funzioni pubbliche. Occorre essere degli irresponsabili per non rendersi conto che la collettività intera paga il prezzo dell’esposizione al sospetto globale, che diviene certezza accusatoria se i protagonisti della gazzarra sono tutti italiani. Sgomberiamo il campo da queste macerie e, sinceramente, spero che questo serva anche a Fini per potere far valere le proprie idee. Comprese quelle che non condivido.