Giustizia

Recidivi della malagiustizia

Recidivi della malagiustizia

La malagiustizia ce la meritiamo, perché parte di un corredo genetico deviato. Hai voglia a parlare e scrivere contro il manettarismo e il giustizialismo, hai voglia a sgolarti contro l’inciviltà insista nello spettacolo dell’accusa, non solo disinteressata al diritto e alla tutela dei diritti, ma intimamente convinta che siano “cavilli” con cui salvar la ghirba ai delinquenti, tanto poi, alla fine, si ricasca nell’antica natura, già descritta da Alessandro Manzoni. Il Paese che registra, diffonde e conserva le immagini di un amministratore locale (Simone Uggetti, sindaco di Lodi, esponente del Pd) appena fuori il portone del carcere, San Vittore, che usa l’occhio delle telecamere per spiarne l’espressione e immaginarne i pensieri, con un nugolo di giornalisti che gli rivolgono domande, incuranti del fatto che si tratta di un detenuto diretto agli arresti domiciliari, quindi di una persona che non può parlare, è un Paese incivile.

Ma non c’è verso di allontanarsi da quel costume, complice una faziosità nevrotica e trasformista, per cui ci si scambia le parti difendendo quelli della propria fazione, dando addosso a quelli delle fazioni altrui. Costantemente incuranti di quel che conta: far funzionare la giustizia. Distinguere fra colpevoli e innocenti, mai confondendo l’accusa con il giudizio.

Lo spettacolo dell’accusa è così pervasivo e autosufficiente che poi si considera inutile raccontare come i processi vanno a finire. Anche perché finiscono dopo anni e chi se ne importa se il Tizio o il Caio, nel frattempo tornati a essere sconosciuti o quasi, conservano la loro illibatezza penale. E quando, per avventura, che ciò si debba al clamore del caso di cronaca o al rilievo dei coinvolti, si dovesse tornare a occuparsene, raccontando l’esito finale, in ogni caso lo si accompagna con ampia diffusione di sfiducia nella giustizia: vuoi perché i condannati non vanno in galera, vuoi perché degli assolti si dice sempre che la tesi dell’accusa è stata dimostrata, ma la giustizia non è arrivata in tempo o ha incespicato nel cavillo. Il risultato non cambia: la sola cosa che va in scena è la malagiustizia. Ciascuno potendo continuare a pensar male di chi già pensava male. Ciascuno impedito a pensar bene della nostra vita collettiva.

Eccoli, quindi, i cronisti figli e genitori di questa Italia, i precari della disinformazione, gli anonimi che sperano di farsi un nome massacrando la vita di altri, che piantano l’obiettivo sul volto di un cittadino le cui mani sono occupate a portar via gli effetti personali, che qualche tempo prima gli consentirono di portare in carcere. Nessuno che ricordi di star inquadrando un innocente. Nessuno che senta l’offesa di vedere uscire dal carcere un cittadino che nessuno ha mai condannato a starci dentro. Quello poi, non sa come rimpiattare il proprio imbarazzo, il proprio dolore, magari abbozza un sorriso, o dice allo sciame giornalistico: attenti, che dietro avete la strada. E subito tali parole diventano la descrizione esclusiva di quell’essere umano, il copione della rappresentazione sempre uguale. Come se spegnere le telecamere e attendere di potere rivolgere delle domande, possibilmente serie e ficcanti, sia un venir meno al dovere di informare. Non sospettando d’essere agenti del disinformare.

La nostra giustizia funziona molto male, ma continuerà così se questo contorno descrive la coscienza collettiva.

Pubblicato da Libero

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