Dritto al cuore del problema: la Costituzione repubblicana, benché la si vorrebbe nata dall’antifascismo, ha interiorizzato l’essenza e la sostanza del codice Rocco e del processo inquisitorio; la modifica del processo in accusatorio, giunta a compimento nel 1989, ha finito con il cozzare con la Costituzione ed ha portato la Corte Costituzionale ad avviare un’opera di demolizione del nuovo codice; il risultato è che viviamo in un sistema misto che dell’inquisitorio e dell’accusatorio prendono tutti i rispettivi difetti e nessuno degli innegabili pregi. La giustizia, così, cola a picco.
Anche chi crede di averle già capite, queste cose, troverà utile la lettura dell’ultimo libro di Carlo Nordio (Emergenza Giustizia – Cantiere Italia). Il procedere chiaro e logico del suo ragionamento aiuta non poco a decifrare i segnali della crisi che ci circonda, aiuta a capire certe cose all’apparenza insensate: come il processo per l’omicidio di Marta Russo.
Anni fa, quando era di moda sostenere il ruolo progressivo e progressista della Corte Costituzionale, mi ero permesso di sostenere che questo era solo un inganno ottico. Chiamata a giudicare la coerenza costituzionale di molte leggi antecedenti, che il legislatore non era stato capace di modificare o di sopprimere, la Corte, abrogandole, svolgeva un ruolo di ammodernamento certamente meritorio. Ma una volta terminato il grande disboscamento, quando, nella normalità delle cose, la Corte avesse cominciato ad operare sulle leggi volute e votate dal Parlamento democratico, sarebbe emerso il suo ruolo conservativo. Niente di male, intendiamoci, solo che era un errore dare al lavoro della Corte un segno politico, e progressista per giunta.
Le cose sono andate come previsto. E quando il Parlamento ha deciso di farla finita con il processo penale disegnato da un grande giurista membro del governo Mussolini, avendo l’Assemblea Costituente recepito proprio quello schema, la Corte Costituzionale si è messa a lavorare contro le decisioni del Parlamento. Solo che, essendo il suo lavoro episodico e limitato, non si è trattato neanche di un ruolo conservativo, ma regressivo ed a tratti devastante.
Nordio chiarisce che dal dilemma non si esce che modificando la Costituzione, altrimenti le contraddizioni sono destinate a crescere e la giustizia (se possibile) a funzionare sempre peggio.
Una delle caratteristiche del codice voluto dal regime fascista, che rende l’Italia un’eccezione unica in tutto il panorama dei paesi civili, è l’unità delle carriere dei magistrati. Questa eredità fascista è oggi sostenuta e difesa dalla sinistra e dalle correnti di sinistra della magistratura, a cominciare da Magistratura Democratica, magari con la scusa di non volere assoggettare il pubblico ministero al potere esecutivo, cioè sostenendo che il regime fascista era più democratico e rispettoso delle democrazie contemporanee. Tesi acrobatica quante altre mai, ma a pappagallo ripetuta da una pletora di politici e giornalisti ignoranti. Uno spettacolo avvincente, e non privo di utilità didattica.
Il magistrato trevigiano si sofferma a lungo sul tema delle carriere, ed in un punto sintetizza l’obbrobrio: “L’onorevole Berlusconi (ma poteva essere chiunque) viene inquisito dal dottor Borrelli e viene giudicato da un tribunale presieduto dal dottor Ghezzi. Il dottor Ghezzi, nel frattempo, chiede il trasferimento alle dipendenze del dottor Borrelli. Berlusconi viene condannato ed impugna la sentenza. Berlusconi in questo modo finisce davanti alla Corte d’appello di Milano. Quella che il dottor Borrelli presiede”. Non ci vogliono particolari studi di diritto per rendersi conto che una cosa simile non regge. E’ sufficiente un po’ di buon senso. Eppure questa è la situazione italiana, questa è la situazione che i paladini dell’unità delle carriere vogliono conservare e perpetuare.
Quando mette in evidenza le deviazioni della magistratura, il suo protagonismo, la sproporzione delle forze fra accusa e difesa, l’abominevole uso delle testimonianze senza testimone, Nordio usa la terza persona singolare o plurale (“la magistratura”, “i magistrati”), ma aggiunge fra parentesi la prima persona plurale. Fra quei magistrati, difatti, c’è anche lui. E’ un segno di onestà intellettuale che ci piace sottolineare proprio perché raro.
Epperò ci domandiamo: avremmo mai avuto la possibilità di leggere queste pagine, sarebbero, cioè, state pubblicate, il loro autore sarebbe mai stato un editorialista di diversi quotidiani, se non fosse stato anche un magistrato reso famoso dalle inchieste che ha condotto? Il quesito è retorico. A noi basta sperare che dal male possa nascere il bene.