La morte di Mike Bongiorno è, ovviamente, sulle prime pagine di tutti i giornali. La televisione è l’unica forma contemporanea di fama generalizzata. Aveva la sua età, s’è goduto la vita, si può esserne rattristati, ma non c’è certo motivo di disperarsene. In compenso, anche sulla morte del presentatore si riesce ad innescare una polemica politica, a farne una specie di Montanelli del quiz. Sulla morte di Sami, invece, non si discute, in qualche caso neanche si da la notizia. Chi diavolo era, questo Sami?
Sami Mbark Ben Gargi era un tunisino di quarantadue anni, detenuto nel carcere di Pavia e morto a causa di uno sciopero della fame e della sete. Si proclamava innocente. Era finito in tribunale per faccende di droga ed aveva subito, nei primi due gradi di giudizio, una condanna a 8 anni e 5 mesi per violenze di una donna marocchina, sua convivente. Che egli si dicesse innocente non mi pare rilevante, né m’interessa granché. Primo, perché non ho alcun elemento che aiuti a farsi un’idea. Secondo, perché le condanne si scontano. Il fatto è che Sami non solo si diceva innocente, Sami era innocente.
Per la nostra Costituzione, così come per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nessuno può essere considerato colpevole se non al termine di un regolare processo, con una sentenza non appellabile. Sami era in carcere da tre anni, ma la giustizia italiana non era riuscita a giudicarlo definitivamente colpevole. Mancava il verdetto della Cassazione, sicché il tunisino scontava la pena ed è morto non da condannato, ma da “ricorrente”. E questo non è un incidente, ma una vergogna stabile della nostra incivile giustizia.
Sami è morto l’8 settembre, di fame e sete. Quel giorno i tribunali italiani erano, come ancora sono, in vacanza. Chiusi per ferie, già dalla seconda metà di luglio. I giudici della Cassazione, che sono i più pagati, come anche i parlamentari, del resto, sono ancora ai mari ed ai monti, talché vien voglia di chiedere loro: ma perché non ci restate, possibilmente non a spese della collettività?
La direzione del carcere ed i medici danno la stessa versione: Sami era determinato, sapeva a cosa andava incontro, ha rifiutato ogni sostegno. Che è come dire: si è suicidato. Ma uno sciopero della fame e della sete non è un suicidio, se non quando si ha di fronte un potere cieco e sordo. Meglio ancora se in vacanza. Era determinato, già. Noi, invece, non riusciamo ad esserlo abbastanza, nel pretendere che la giustizia italiana torni ad essere tale, e non un offesa alla nostra civiltà. Questo articolo sarà letto (se sarà letto) come una trovata eccentrica, ed alla prossima polemica giudiziaria i soliti scemi diranno che noi garantisti interveniamo solo a difesa di amici e potenti. Di Sami, in fondo, non importa niente a nessuno.