Sami Ben Garci è morto in carcere, per sciopero e della fame, da detenuto non condannato in via definitiva, da “ricorrente”. Ne ho già scritto. Ora, però, a parlare sono i suoi compagni di cella, quelli che lo hanno visto deperire, sfinirsi e morire. Dicono: nessuno ha fatto niente. Il medico del carcere, a Pavia, ha detto
che non poteva certo opporsi alla libera scelta di quell’uomo. Davvero? Pensare che a me sembrava le leggi dicessero il contrario, anzi, pensare che mi lamentavo del fatto che le leggi dicessero il contrario.
Così, se ho ben capito, qualora io intenda morire, considerando terminale e dolorosa la mia vita, la legge me lo impedisce, e quel che è in discussione in Parlamento imporrebbe d’alimentare ed idratare senza fine anche involucri corporei senza speranza di ritorno alla ragione. Ma se, invece, sono uno vivo e vegeto, che protesta non perché vuole morire, ma perché (a torto o ragione, questo non rileva) intende vivere da libero, allora si rispetta la mia decisione e mi si lascia crepare? Cos’è, la riunione annuale dei pazzi scatenati?
Un detenuto, poi, non è libero manco per niente, almeno che non gli si voglia riconoscere l’unica libertà di sopprimersi. La mia salute di uomo libero dipende in gran parte dalle mie scelte. Ma la mia salute di detenuto dipende in gran parte da chi mi ha in custodia. Nel caso di Sami, per giunta, il suo avvocato aveva scritto alla direzione del carcere, segnalando il pericolo che il suo assistito finisse all’altro mondo, ed il carcere aveva risposto dicendo che tutto era costantemente monitorato. S’è visto, dato che iniziando lo sciopero il 16 luglio è riuscito a morire il 5 settembre.
Avevo segnalato un’inciviltà, che ha riguardato Sami, come migliaia di altri detenuti. Ne è venuta fuori una seconda, elevata al cubo. Spero che i responsabili siano puniti in modo equo ed in un tempo breve, non perché questo risolva alcunché, ma, almeno, perché non si consideri normale quel che è accaduto.