Giustizia

Scalfaro e la malagiustizia

Scalfaro e la malagiustizia

Oscar Luigi Scalfaro è un uomo della destra democristiana divenuto paladino della sinistra giustizialista, un ministro degli interni del governo Craxi che cavalcò l’ordalia antipartitica. Rimproverargli l’incoerenza non è ragionevole, pertanto. Ci sono uomini che spendono una vita essendo coerenti solo

nell’assecondare la propria voglia di primeggiare, di emergere, di comandare. Sentirgli dire, come ha fatto in un’intervista al Corriere della Sera, che l’avviso di garanzia consegnato a Berlusconi nel 1994 (relativamente ad un procedimento conclusosi con l’assoluzione) ebbe un “tempismo singolare”, induce prima ad un certo disorientamento, tendente alla nausea, poi spinge al sorriso. Sebbene amaro.
Egli è il presidente del “non ci sto”. Non ci stava ad un’inchiesta della procura romana, che lo vedeva fra i beneficiari dei fondi riservati dei servizi segreti. Intervenne a reti unificate per proclamare il suo dissenso dal merito di un’inchiesta. E’ anche il presidente cui si rivolse Romano Prodi dopo essere stato interrogato da Antonio Di Pietro, con le solite urla. In effetti, dopo la fuga sotto le gonne quirinalizie, l’inchiesta s’inabissò, mentre il citato pubblico ministero divenne, per ben due volte, ministro nei governi Prodi. Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici s’interpretano, disse uno statista di Mondovì.
Scalfaro giudica dannosi “certi atteggiamenti ultradefinsivistici del Csm”. Essendone stato a capo, per sette anni, o non sa quel che dice o tenta di occultare quel che fece. E’ vero che parlò di “tortura”, a proposito della carcerazione preventiva, e, del resto, era difficile ignorare quel che stava succedendo, suicidi compresi, ma è anche vero che non mosse un dito. E’ vero che non firmò un decreto, allora definito “salvaladri”, ma è anche vero che prima di lui si pronunciarono i pubblici ministeri di Milano, nel corso di un’apparizione televisiva collettiva dal tono concretamente ricattatorio. E lui tacque. Oggi si chiede perché certe carcerazioni scattano proprio in determinati momenti. Quando lui neanche se lo chiedeva e non fiatava i procuratori, assurti a capipopolo, rispondevano che le cose avvengono quando le carte lo consentono. Non era e non è vero, ed il fatto che lo abbiano detto gli stessi poi tronfi nel sostenere che “il processo pubblico è già fatto e la condanna emessa”, avrebbe dovuto indurlo a qualche reazione. Reagivamo noi, armati di sola coscienza e senso del diritto, subendo processi per diffamazione (vinti). Lui se ne stava zitto zitto. In definitiva, egli è stato un complice del decadimento del diritto, della bancarotta giudiziaria, del corporativismo imperante. Diceva di avere “la toga cucita sulla carne”, ma più di una volta diede l’impressione di sentirsele addosso.
L’avviso a Berlusconi, nel 1994, gli servì per mandarlo via. Poi la stampa libera e per benino massacrò un galantuomo come Filippo Mancuso, reo di volere raccontare come stavano le cose. Se vuole interrogarsi sulle coincidenze lasci stare l’anima di Piccioni ed il cadavere della Montesi, e cominci a riflettere su quel che ha fatto. Se poi s’allarga anche a quel che non ha fatto gli resta giusto il tempo per riconsiderare quanto male possano fare alle istituzioni la viltà e l’ipocrisia. In conclusione, a ben pensarci, le sue parole odierne sono positive: se uno come lui sente il bisogno di pronunciarle vuol dire che avverte la fine del pangiustizialismo. Peccato che prima sia stato fra i tanti che hanno condotto la giustizia alla bancarotta.

Condividi questo articolo