Giustizia

Segreto di Stato e sicurezza

Segreto di Stato e sicurezza

E’ successo quel che scrivemmo all’epoca dei fatti, la Corte Costituzionale ha confermato che in un Paese appena appena normale la magistratura non può farsi beffe del segreto di Stato ed inquisire, rendendone oltre tutto nota l’identità, una comitiva di agenti segreti, italiani e statunitensi, nel mentre quelli agiscono e fanno il loro mestiere. Abu Omar, che si considerava imam di Milano, era ritenuto un personaggio pericoloso, uno dei terminali del terrorismo. C’era un interesse degli americani ad impedirgli di agire ed uno di noi italiani a non aprire, con il suo arresto, una questione che sarebbe potuta costare la sicurezza di cittadini che prendono la metropolitana. Quindi due Stati sovrani, nei quali vigono le regole del diritto, ma non per questo della stupidità, decisero di prelevarlo senza il suo consenso e spedirlo altrove. Si può discutere all’infinito sull’opportunità dell’azione, sulla precisione del bersaglio e sulla destinazione del volo che ce lo portò via (grazie al cielo), ma parlare di rapimento era e resta una scempiaggine allo stato puro.
La procura di Milano la pensò diversamente, aprì un’indagine e non solo perquisì i servizi segreti, ma dispose l’intercettazione telefonica degli agenti. Il materiale raccolto era considerato segreto di Stato da due governi, quello presieduto da Prodi e quello che gli è successo, l’attuale Berlusconi. Tirarono dritto. Ma non basta, perché l’allora capo dei servizi, il generale Pollari, pose un problema che qui ritenemmo assai ben fondato e formulato: mi accusano di un reato grave, che faccio, mi difendo venendo meno alla mia lealtà verso lo Stato, quindi violando il segreto, rispondendo e raccontando come stanno le cose, o me ne sto zitto, e questi mi condannano? Per ben tre volte il governo italiano coprì il silenzio dei propri agenti, affermando che facevano bene a tacere perché era segreto quel che sapevano, e per altrettante tre volte la procura sollevò un conflitto fra poteri dello Stato, affermando che alle proprie domande si doveva rispondere. Ora la Corte Costituzionale chiarisce la questione: avete torto.
Attenzione, perché non c’è in ballo solo a procura, che esercitando l’accusa si può comprendere non sia propensa all’equanimità (anche se le leggi italiane stabiliscono il contrario, e loro si ribellano sempre all’evidenza, ovvia in tutto il mondo civile, secondo cui rappresentano una parte e non possono essere colleghi di chi giudica), ma ci sono ben due giudici, cioè due presunti terzi ed indipendenti, che hanno sposato quella tesi. Che, in punto di diritto, si conferma sbagliata. Sono il giudice che ha stilato e firmato il decreto di rinvio a giudizio, e quello monocratico che il giudizio voleva portare avanti utilizzando carte di cui non poteva disporre. La sentenza di ieri, come vedete, chiude una questione specifica e ne apre una generale, decisamente più rilevante.
A noi, allora, sembrò chiaro quel che i magistrati della procura ed i giudici coinvolti ora imparano: la sicurezza nazionale non può essere subordinata al desiderio di ribalta di certi inquirenti ed alla miopia (nel migliore di casi) togocentrica circa la competenza. Questo, naturalmente, non significa che possano esistere, in uno Stato di diritto, dei poteri che non rispondono alla legge, ma ragionevolezza e diritto impongono che a rispondere di fatti simili sia chiamato il governo, in sede politica, non i singoli che agiscono, da subordinati, nel suo interesse, in sede giudiziaria. Se salta questo elementare principio allora chiudiamo i servizi segreti e rinunciamo alla sicurezza nazionale. Anche se, temo, gli stessi magistrati sarebbero capaci d’inquisire i responsabili per non avere adempiuto al loro dovere.
Infine, anche a causa di quella vicenda, e delle relative indagini giudiziarie, i vertici dei servizi saltarono e molti agenti furono bruciati. La sentenza costituzionale rimedia al tema del segreto,ma certo non al danno che ne è seguito. E’ grave il fatto che nessuno ne risponderà.

Condividi questo articolo