Mentre impazza il dibattito sulle intercettazioni legali, disposte dalla magistratura, zitto zitto va a morire il mai nato processo sulle spiate illegali, di cui si resero protagonisti settori di Telecom Italia. Anzi, è già morto, perché, se si farà, servirà a giudicare un passato remoto, mentre sul fenomeno vivo hanno agito gli
arresti cautelari e le notizie diffuse nel corso delle indagini, confermando la triste condizione di una giustizia che s’amministra usando tutto, tranne che le sentenze.
I coinvolti nelle indagini sono liberi e tutti da considerarsi degli innocenti. I vertici di Telecom sono cambiati, senza che i vecchi siano stati sfiorati dalle indagini e i nuovi abbiano considerato utile tutelare in qualche modo la società. Coloro che avevano assunto gli indagati, e creato la struttura nella quale agirono, sostennero che dalla loro attività la società era stata lesa, che non solo i suoi amministratori non avevano nulla da rimproverarsi, ma, semmai, reclamavano giustizia. Hanno smesso di reclamare, e forse non sono neanche stati lesi. Non è successo nulla, insomma. Sì, è vero, ci sono montagne di dossier, spiate, pedinamenti, accumulo di materiale a scopo diffamatorio, tentativi di condizionare chi liberamente scriveva, ma le indagini sono ferme da più di un anno (essendo iniziate nel maggio del 2005), in attesa che la Corte Costituzionale faccia sapere come deve essere interpretata la legge che impone la distruzione di tutta quella roba. La Corte, dal canto suo, continua a rinviare, aspettando che sia il legislatore ad occuparsi di quel che segnalammo già all’epoca: se si distrugge tutto, su che si fanno i processi? Nel 2006 destra e sinistra votarono per la distruzione, in modo che degli innocenti non fossero calunniati. Peccato che fosse già tutto (o quasi) sui giornali.
Il tempo passa, il processo non si vede e nemmeno il rinvio a giudizio, la prescrizione galoppa, la procura attende la Corte che attende il Parlamento. Noi attendiamo di sapere se, per caso, non sia uno scherzo, visto che così andando ci si scanna su come perseguire i reati, ma si rende non più perseguibile un gigantesco intreccio di politica, affari e spie private. Dritto a processo, però, si manda l’ex capo dei servizi segreti statali. Nel migliore dei casi, un ridicolo paradosso.