Giustizia

Storie e storici di parte

Storie e storici di parte

Paul Ginsborg è uno storico di parte, la qual cosa non è in sé offensiva dato che lo sforzo di riordinare i fatti al fine di dimostrare una tesi è stato compiuto molte e molte volte, anche da autori di primo livello.

I guai, però, cominciano quando si cerca di piegare i fatti in modo che meglio si prestino a dimostrare una tesi. In questo caso la dignità scientifica dell’opera cade verso il basso, diviene strumento di propaganda e non frutto di ricerca. Questa è la mala sorte che tocca alla “Storia d’Italia 1943-1996”, pubblicata da Einaudi.

Per argomentare questo giudizio negativo mi soffermerò sulle parti che riguardano il sistema politico, il suo finanziamento e l’esplosione della questione giustizia. Argomenti sui quali Ginsborg si allinea a tesi di consumato conformismo, di nessuna base documentale, ma pericolosissime, dato che su di esse si sta costruendo una raffigurazione falsa e fuorviante della nostra storia nazionale. Certe tesi è meglio contestarle subito, senza attendere che nasca un De Felice della storia repubblicana. (“Il vero nemico della verità – scrisse John F. Kennedy – non è la menzogna, deliberata, consapevole e disonesta, ma è il mito, insistente, persuasivo, chimerico”).

C’è da dire che l’autore si rende conto della superficialità e tendenziosità del proprio lavoro, tant’è che (pag. 771), a proposito di quel periodo che va dalla fine del pentapartito, alle elezioni anticipate poi due volte ripetute, avverte il lettore che “finché storici ed antropologi sociali non prenderanno il posto dei giudici e dei giornalisti, qualsiasi conclusione potrà essere solo provvisoria”. Già, il fatto è, però, che il libro ha la pretesa di essere un libro di storia, e l’autore, invece, non fa affatto tale mestiere ma si limita a scopiazzare da giornali e veline giudiziarie, cosicché le sue conclusioni non sono solo provvisorie, ma principalmente affrettate e preconfezionate.

Faccio un esempio. Subito dopo la prudente affermazione, Ginsborg riassume la vicenda, emersa in sede giudiziaria, di un sottosegretario democristiano operante nel messinese che fece assumere alle Poste, come invalidi, parenti e congiunti, suoi e dei suoi sostenitori. Questo è il fatto, superficialmente riprodotto dalle cronache giudiziarie. E’ un vero peccato che lo storico non si interroghi sulla legge che ha reso possibili certe deprecabilissime cose. Indagando avrebbe scoperto che la legge, approvata alla vigilia delle elezione del 1968, e sostenuta da una larghissima maggioranza (mancò il voto favorevole del partito comunista sol perché volevano che fosse più alta la percentuale di invalidi che la pubblica amministrazione sarebbe stata obbligata ad assumere), era congegnata in modo tale da non presupporre l’esistenza di alcuna graduatoria e, quindi, da consentire l’assunzione di soggetti scelti direttamente dal vertice ministeriale. Naturalmente occorreva che fossero invalidi, e, altrettanto naturalmente, un certo numero di persone sane si fecero passare per invalide (con la copertura dei medici). Ma questo è il frutto della disonestà nazionale o non, piuttosto, l’indotto di una legge censurabile cui nessuno si oppose? In ogni caso, tutti conoscono lo scandalo dei falsi invalidi, ma pochissimi conoscono questa storia, dato che nessuno, neanche il nostro autore, si è preso la pena di raccontarla.

Dai mancati approfondimenti si passa alle stravaganze, alle omissioni, alla sfacciata falsificazione dei fatti. La corruzione politica, secondo il nostro londinese, raggiunse livelli professionali nel partito socialista, la qual cosa non si dimostra, ma si afferma. A sostegno di tale tesi si nota (pag. 774) che per i democristiani “in accordo con la tradizione storica del partito tra di essi non emergeva alcun leader indiscusso, nessuna figura di spicco al centro della ragnatela della corruzione, con l’unica possibile eccezione dello sfortunato Severino Citaristi, tesoriere del partito, che tuttavia non era un politico ma un amministratore”. E come si regge, una simile stravaganza? Intanto Citaristi era un politico, e non un amministratore, ed era talmente politico che ricevette, da detenuto, la solidarietà del capo dello Stato (cosa che il nostro tace). Ma Forlani, giustiziato a mezzo video nel corso di un processo cosa era ? Non un leader e non un politico, secondo Ginsborg. Il quale, oltre tutto, dando questo ruolo diverso ai dc finisce con il dimenticare che il capitolo della corruzione ha una specificità italiana solo intanto quanto si è sviluppato nel vasto terreno della presenza pubblica nell’economia, terreno sistemato e sistematizzato, a suo tempo da Amintore Fanfani, che non era socialista.

Il colmo della falsificazione, però, lo si raggiunge quando affronta la condizione in cui si è trovato il partito comunista italiano. “La storia della corruzione all’interno del pci – afferma (pag. 775)- deve ancora essere scritta”, cosa che, nel suo lunghissimo libro di storia, però, non fa. Si, certo, nel caso della metropolitana milanese i comunisti erano coinvolti, ma quasi a titolo personale, quasi come delle mele marce, perché il resto del partito rimase estraneo. Se il pci non riuscì a denunciare queste degenerazioni ciò lo si deve alla “profonda stanchezza della sinistra italiana”. E qui Ginsborg mostra che il suo essere di parte ha oramai soppiantato ogni velleità di fare lo storico : egli è solo un propagandista.

Le sue tesi sono fondate sul nulla, e salta a pie’ pari il nocciolo della questione, che, attenendo al finanziamento dei partiti attiene anche al finanziamento del pci. Se non si parte dalla certezza, storica e documentata, che il pci potè disporre di massicci finanziamenti dall’estero, provenienti dal blocco comunista nemico della libertà e della democrazia, diviene impossibile capire alcunché di quel che è successo. Approccio, questo, che non è giustificazionista, non assolve nessuno, ma condanna chi pretende di emanare condanne falsificando gli atti.

Inoltre, per sostenere questa impossibile tesi Ginsborg finisce con il descrivere un pci dove tutti sapevano che alcuni compagni rubavano, ma tutti tacevano secondo un costume omertoso che, sia pure dovuto alla “stanchezza”, assomiglia di più ad una attitudine mafiosa che non ad una dottrina politica. Rende, quindi, un pessimo servizio alla parte che intende (visibilmente) servire.

In un’opera di storia ci saremmo aspettati di leggere qualche cosa relativamente al perché il fenomeno della corruzione diviene macroscopico negli anni ottanta. Non si vorrà, spero, sostenere che i protagonisti politici di quel decennio svilupparono una cleptomania superiore ai loro predecessori e successori. In un’opera di storia, infatti, si sarebbero dovute indagare quelle trasformazioni sociali ed economiche che resero così particolari quegli anni. Se ciò fosse stato fatto sarebbe stato più facile comprendere che in quegli anni il mercato economico mostrò maggiore forza e vitalità che nel passato e che le forze politiche (ed è questa la loro grande responsabilità), lungi dall’adeguare le regole alla maggiore libertà di mercato, preferirono adeguare i comportamenti. Nasce così la zona grigia nel quale sono proliferati modi di essere “giusti” dal punto di vista del mercato, ma “illegali”. Cresce così quella gigantesca ipocrisia che rese possibile una corruzione patologica.

Ginsborg, invece, preferisce scimmiottare Vanzina, e ci descrive un’epoca di costumi riprovevoli, anche qui commettendo imperdonabili errori di superficilità. I costumi della razza rampante, infatti, sono emersi con grande evidenza per due motivi : a) perché colpiscono l’immaginario collettivo; b) perché, al contrario di quel che si dice, i piani alti della commistione fra politica ed affari non sono stati toccati, lì avrebbero trovato gente capace di tenere educatamente forchetta e coltello, ma non meno voraci del generone ingalerato.

Superficialissime le considerazioni dedicate alla magistratura (pagg. 778 e seguenti). Intanto si citano le relazioni presentate dalla Corte dei Conti, ma neanche ci si domanda cosa sia. Se lo avesse fatto Ginsborg si sarebbe accorto che gran parte del malaffare è cresciuto in settori dell’amministrazione pubblica sotto il diretto controllo della Corte dei Conti, e si sarebbe accorto che nei consigli d’amministrazione imputati di ruberie sedevano, talora, i rappresentanti della Corte dei Conti. Prima di citare le relazioni come fonti, quindi, uno storico dovrebbe controllare di che fonte si tratta. Ma, oramai lo abbiamo capito, Ginsborg fa un altro mestiere.

Si giunge anche al comico. La rivoluzione giudiziaria è stata possibile perché in Italia la magistratura è indipendente come in nessun altro paese. Alla base di tale indipendenza vi sono gli effetti del ’68 e dell’istruzione di massa. Perché, in Inghilterra lo hanno saltato il ’68? O non sono istruiti abbastanza? Al contrario di Ginsborg penso che anche in Inghilterra studino, e penso che se ad uno studente di diritto raccontassero che in un paese i rappresentati dell’accusa ed i giudici sono colleghi, vivono nello stesso posto, si parlano e scrivono a proposito delle cause, passano assieme il tempo libero, sono iscritti al medesimo sindacato e si votano a vicenda nell’orgia corporativa degli organismi di autocontrollo, detto studente ci domanderebbe a quale paese incivile ci stiamo riferendo. Semmai ci coglie il dubbio che, anche in Inghilterra, talora gli studenti studino di più dei professori.

Via, stavamo ancora prendendo Ginsborg sul serio quando siamo arrivati al colmo del ridicolo (pag. 9O1) : “attraverso vie misteriose, i verbali d’interrogatorio venivano riprodotti quasi in tempo reale sulle pagine di quotidiani e settimanali”. Vie misteriose ? Ma se c’erano gli uffici stampa di procura che diramavano le fotocopie, se esistevano i pool di giornalisti che facevano i turni e si scambiavano i pezzi. Paul, che scotch bevi? Ce ne offri un poco?

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