Giustizia

Venti anni dopo

Venti anni dopo

Venti anni dopo non è il passato che torna, è la politica che non ha futuro. Questa politica. Le inchieste penali, il coinvolgimento di politici, la consegna dei parlamentari alle patrie galere, non è il riproporsi del 1992-1994, perché tutto è diverso, salvo il fatto che nessuno è riuscito a curare i nostri mali.

Venti anni fa fu determinante la fine della guerra fredda e l’incapacità dei partiti di governo di comprenderne le conseguenze. Oggi è la marginalizzazione del nostro ruolo internazionale a rendere possibile ogni avventura. Allora le forze politiche vincitrici, quelle che s’erano opposte al blocco sovietico, furono prese d’assalto dagli sconfitti, più malleabili nelle mani degli interessi che puntavano alle nostre ricchezze nazionali. Oggi la scena è popolata da sconfitti, privi di una quale che sia disegno capace di proiettarsi nel futuro. In quel biennio vennero a galla i problemi del finanziamento illecito dei partiti, reso necessario dalla competizione con il più grande, più ricco, più strutturato e più criminalmente finanziato partito comunista d’Occidente, attività di cui taluni approfittarono, arricchendosi personalmente (così violando sia la legge che la fiducia dei propri amici e compagni). Ora quel che vediamo ha un segno diverso: c’è chi fa politica appositamente per arricchirsi, personalmente e direttamente, mentre i partiti non esistono e le loro strutture burocratiche campano a spese del finanziamento pubblico. Infine: allora ci fu un comitato politico giudiziario, che agiva secondo logiche di schieramento e in raccordo continuo con il Quirinale, oggi ci sono procure che vanno ciascuna per i fatti propri, mentre la giustizia ha smesso (da tempo) di funzionare.

I tratti comuni sono altri: il giustizialismo, di cui s’è infettata la società e che ha corrotto la sinistra; una politica vile, che consegna al macello parti di sé nella speranza di non essere collettivamente macellata. Non è poco, ma non bastano gli schizzi di sangue per credere d’assistere sempre allo stesso film dell’orrore.

Dice Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd: noi siamo diversi, non chiediamo alla magistratura di fermarsi, semmai chiediamo ai nostri inquisiti di farsi da parte. Per sua fortuna Togliatti è morto, altrimenti lo inseguirebbe con gli scarponi chiodati. Dovrebbe ricordarsi, Orlando, d’essere stato commissario del suo partito in quel di Napoli, e dovrebbe essersi accorto del disastro plebeo e giustizialista cui conduce la sua apparente ragionevolezza. La via che gli piace è quella che segna la fine della politica, la resa senza condizioni. Saranno le procure a stabilire chi governa, quando non saranno loro stesse a governare. A Napoli è già successo.

Non siamo geneticamente diversi, dice ora Pier Luigi Bersani (complimenti per la prontezza di riflessi), ma vogliamo esserlo politicamente. Bravo, e come? Consegnando i parlamentari alle manette? Semmai dovrebbero accorgersi che per inchieste di quel tipo non si giustifica l’arresto per nessuno. Dovrebbero avere gli attributi per denunciare che il codice di procedura, circa la custodia cautelare, è costantemente tradito. Ma ci vuole coraggio. Loro preferiscono consegnare gli ostaggi.

Per essere politicamente migliori ci si dovrebbe accorgere che lo Stato deve togliere le mani da gran parte dell’economia, sicché non ci sia più un esercito di partitocrati che campano di spesa pubblica. Lui, invece, Bersani, è a capo di un partito che chiede ai propri amministratori e nominati di contribuire alle spese. Perché? Se gli emolumenti sono troppo alti abbassiamoli, così si risparmia. Se sono adeguati al lavoro che si svolge non si chieda il pizzo. Ma se si batte cassa in ragione di una nomina si è nel pieno della corruzione. Il fatto che non se ne rendano conto è segno di quanto sia calata la sensibilità.

Anche Chiamparino (che delusione) insegue la demagogia dicendo: togliamo l’autorizzazione all’arresto dei parlamentari. Ma sì, sbattiamoli in galera e processiamoli con comodo, in dieci anni, così avremo consegnato l’Italia a un potere che i costituenti non vollero tale, per una semplicissima ragione: quello giudiziario non è democratico. Ed è giusto (nel nostro sistema) che non lo sia, ma proprio per questo non deve essere un potere.

Venti anni dopo, la differenza può essere così riassunta: allora si volle abbattere, con la forza, un sistema democratico malato, oggi se ne seppellisce uno morto. Passiamo dai funerali ai battesimi, dal marcire nel passato al respirare nel futuro. Se c’è ancora chi ha testa per la politica, si metta mano alle istituzioni della terza Repubblica.

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