Il totale vuoto. Questo è quello che si trova nella lettura della testimonianza di Giorgio Napolitano, innanzi alla Corte d’assise di Palermo. Un vuoto tale da rendere ancora più inaccettabili le anticipazioni fatte da alcuni dei presenti, ma anche surreali alcuni titoli di giornali.
La testimonianza di Napolitano è stata chiesta per avere lumi circa la lettera a lui inviata da Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica. Il testimone mise per iscritto che non aveva nulla da dire e nulla ha detto. Nulla più di quel che aveva già detto e scritto. Vuoto.
E’ stato poi sottoposto a una serie di domande relative al clima dell’epoca e alle bombe mafiose. Il testimone ha detto, nell’ordine: a. non mi sono mai occupato di questi temi; b. dedicavo la mia attività all’economia e alla politica estera, per conto del Partito comunista italiano; c. anche da presidente della Camera mi occupavo più delle autorizzazioni a procedere che di leggi anti mafia; d. non sono Pico della Mirandola, quindi non ricordo tutte le cose che mi chiedete. Tanto non è Pico che, in un paio di passaggi, fa confusione fra Ciampi e Scalfaro, circa i rispettivi ruoli istituzionali. Quindi è non solo arbitrario, ma decisamente truffaldino affermare che il presidente abbia parlato di ricatti allo Stato e destabilizzazioni, perché si è limitato a dire che questo si diceva all’epoca. Ad un certo punto gli chiedono di specificare le sue parole sul timore di “colpo di Stato” e lui si stupisce: l’ho detto io? subito capisce: sì, l’ho detto, ma citavo Ciampi. Citazione che, con rispetto parlando, poteva fare chiunque avesse letto i giornali.
Il testimone Napolitano, pertanto, riguardo ai fatti sottoposti a processo, non dice nulla che non sia il riportare quel che si diceva in giro. E non è certo una sua deficienza o reticenza, è che non aveva senso alcuno interrogarlo.
Un brivido, per i conoscitori della materia, corre solo a pagina 53 del verbale. Napolitano aveva parlato di una “triade” istituzionale, comprendente il presidente della Repubblica e i due presidenti delle Camere. Gli domandano se parlarono mai del 41 bis e delle carceri. No dice, e aggiunge: “Il presidente Scalfaro (…) aveva un rapporto privilegiato con organizzazioni cattoliche di assistenza ai detenuti e quello era, diciamo, un campo di relazioni sue e strettamente personali. (…) Poi c’era il capo del Dap, che doveva rispondere al ministro della Giustizia (…)”. Brividone, perché questa è la storia che qui abbiamo raccontato e che in generale si tace: fu Scalfaro a volere rimuovere l’allora capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato, sostituito da Adalberto Capriotti, a sua volta segnalato non dal ministro competente, ma a lui imposto dall’accoppiata Scalfaro-monsignor Curioni, cappellano carcerario. Non solo il capo del Dap fu scelto in Vaticano, ma fu lui a suggerire subito una sospensione del 41 bis, il carcere duro. Cosa che il ministro della giustizia, Giovanni Conso, effettivamente fece (ma solo per un gruppo di detenuti). Le parole che Napolitano riserva a Conso, formalmente rispettose e sostanzialmente irridenti, chiariscono il riferimento. La cosa comica è che si continua a supporre che oggetto della “trattativa” fosse una cosa che era già stata data, il che rende ancora più bislacca tutta la sceneggiatura della “trattativa”. Ecco, su questo Napolitano ha voluto dire: rivolgetevi altrove. E ha ragione.
Fine. Vuoto con brivido, quindi. Intanto continuiamo a processare lo Stato al posto della mafia e i carabinieri al posto dei mafiosi, usando le parole dei mafiosi come fonte di verità. La cosa terribile è che ci vorranno anni e pazienza, per sgomberare il campo storico da tanti detriti.