I 150 anni dall’Unità d’Italia sarebbero potuti essere l’occasione per studiare qualche pagina di storia, possibilmente non inquinata dalla propaganda. Invece la ritualità s’accompagna al disinteresse, mentre s’ode il brontolio della retorica antirisorgimentale. In compenso sono divenuti il pretesto per scrivere una nuova pagina, bislacca e storpia, di storia politica: la festa del 17 marzo è stata proclamata con un decreto legge, che contiene errori imperdonabili.
E’ una faccenda quasi divertente. Non catastrofica, ma rivelatrice. Comincia il 24 aprile del 2007, quando un decreto del presidente del Consiglio dei ministri istituisce il comitato per le celebrazioni, facendolo presiedere dall’appena ex Presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi. Già, perché se anche la festa è stata istituita con un decreto legge, quindi con uno strumento legislativo che richiede necessità e urgenza, che il 17 marzo prossimo sarebbero ricorsi i 150 anni dalla proclamazione del regno lo sappiamo da 150 anni. Non sono bastati a prepararsi.
Il comitato interministeriale s’occupava solo di quello, desiderando fare le cose in grande. Non si fanno nozze con i fichi secchi e non si fanno celebrazioni senza quattrini, quindi, prima ancora di pensare alla storia, prima d’avvertire sulle necessarie puntualizzazioni (ad esempio: Roma si unì all’Italia solo nel 1870, perché, dettaglio solitamente taciuto, il papa era contrario all’unità e al fatto che la città eterna ne fosse la capitale), il comitato si dedicò al batter cassa. Nel frattempo si fecero le elezioni politiche, Prodi fu sostituito da Berlusconi, e gli illustri comitatisti cominciarono ad avere il mal di pancia. L’accusa era semplice: il nuovo governo non fornisce soldi perché è contrario alle celebrazioni. Seguono dimissioni date, poi ritirate, poi ridate. Alla fine, nel maggio del 2010, la presidenza del comitato passa a Giuliano Amato, nominato con un decreto di Berlusconi. La musica resta la stessa: occorre dare più risalto, più importanza, più tutto. Fino ai primi giorni del febbraio scorso, quando il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, dice apertamente che un Paese in crisi non può permettersi di fare un giorno di festa in più. Amato, primatista mondiale nell’arte d’adeguarsi, capisce al volo che quelle parole sono critiche verso il governo e si allinea: niente festa, basta il pensiero. Alle Lega non pare vero, non perché sia contro l’Unità, ma perché ogni occasione è buona per far caciara.
Ed è qui che arriva il bello: a febbraio s’accorgono di non avere ancora deciso se fare festa o meno. Preso da impeto risorgimentale il governo proclama: sì, che festa sia. Essendo oramai tardi (come i mariti che si ricordano dell’anniversario dieci minuti prima di tornare a casa e comprano una scatola di cioccolatini, nel mentre consumano un cordiale al bancone), il 23 febbraio il Consiglio dei ministri vara un decreto legge. L’occhiuto staff del Quirinale, oramai aduso al controllo preventivo, continuativo e successivo, lo esamina e lo approva. Peccato che sia sbagliato.
Si sostituisce la festa del 17 marzo a quella del 4 novembre, che fu abolita, come festa, nel 1977. Si fa riferimento agli effetti salariali della festa scambiandoli con quelli del 4 novembre, che non esistono per i dipendenti pubblici e neanche per la gran parte dei privati (nel qual campo, comunque, valgono i singoli contratti). La settimana prossima festeggiamo, vigente il decreto, che scade a fine aprile, ma non sarà facile rimediare alla frittata, anche perché le uova sono rotte.
Nel settore pubblico non è un gran problema, perché qui i dipendenti non solo hanno molte più ferie dei privati, ma anche quattro giorni da scegliere a piacimento. Soluzione: se ne prende uno e lo si assegna al 17. Problema: e per quelli che li hanno già utilizzati tutti? Che il cielo li benedica, faranno un giorno di vacanza in più. Costo aggiuntivo: zero. La cosa si complica nel privato, perché istituendo la festa, nel primo comma del decreto, si richiamano due articoli (2 e 4) di una legge del 1949, che regola le festività, ma non quello (il 5) che ne stabilisce le ricadute economiche. Quindi, ciascuno fa come gli pare. Molti lavoreranno, naturalmente. Alcuni riceveranno l’indennità di festività, altri no. Ma per quelli che la riceveranno, visto che non è scambiabile con quella del 4 novembre, ciò comporterà un costo aggiuntivo per le aziende. Eventualità negata dal citato, e sfortunato, decreto legge.
Che succede se si cambia il decreto nel corso della conversione? E cosa capita se lo si lascia al suo infausto destino, facendolo decadere? Succede che molti saranno titolati a far ricorso. Pertanto: festeggeremo i 150 anni avendo pasticciato alla grande e lasciando strascichi giudiziari. Lancio, allora, un appello: sono certo che il 17 marzo del 2061 ricorreranno i 200 anni dall’Unità, per favore, non ricordatevene due settimane prima.