5 aprile 1945. Una data determinante, per l’Italia che siamo. Se ancora ci tocca discuterne è perché, dopo di allora, si è preferita la mitologia alla storia, la bugia alla realtà. L’8 settembre 1943 era stato firmato l’armistizio, con le forze dell’alleanza, in un clima di dissoluzione patria. Era iniziata l’occupazione nazista e l’antifascismo era divenuto guerra di Resistenza. Se i partigiani fossero stati la compatta maggioranza degli italiani, invece della coraggiosa minoranza, e non fossero stati coprotagonisti di una guerra civile, la pace sarebbe costata meno sangue. Se i partigiani fossero stati solo comunisti, l’Italia successiva non sarebbe stata una democrazia.
Invece, si è voluto negare che gli italiani siano stati fascisti ed il valore nazionale del fascismo, amputando un pezzo di storia. Si è voluto negare che la Liberazione fu opera degli anglo americani. Si è omologata la Resistenza alla sua influenza comunista, così cancellando il migliore antifascismo, quello che si batté per la libertà e non per una diversa dittatura. Si è lasciato credere che la successiva guerra fredda, la divisione del mondo in due blocchi, sia stata l’ostacolo all’evoluzione dell’Italia, anziché la sua provvidenziale salvezza, in questo modo regalandoci un supplemento di guerra civile, trascinatasi negli anni del terrorismo.
Su questo cumulo di bugie abbiamo eretto la torre sbilenca della retorica nazionale, con il risultato che ancora si litiga su quel che fummo e come lo diventammo. Dopo decenni passati ad adorare il 25 aprile come fosse l’apice e la premessa della rivoluzione comunista, oggi quasi lo si disprezza, dimenticando che fu grazie alla sua natura che il comunismo ce lo siamo risparmiato. La Repubblica democratica non fu il frutto dell’incompiutezza resistenziale, come insegnarono a quei fanatici assassini che, al soldo del nemico comunista, se ne immaginavano continuatori, bensì il suo fortunato trionfo.
Quindi il 25 aprile lo festeggio eccome, e ne onoro la memoria rileggendo le pagine di Ernesto Rossi, nel suo “Elogio della galera”, esattamente dove descrive i prigionieri comunisti dogmaticamente impegnati a far scuola d’ideologia. Lui era uomo libero anche da detenuto, sapeva che quei “colleghi” erano anch’essi antifascisti, ma se ne teneva a distanza.