Idee e memoria

Allucinogeni in cassazione

Nulla si contorce più del diritto. Mettiamo che io sia animista e, per riconosciute capacità medianiche, anche sciamano. Per esercitare la funzione ho bisogno di allucinogeni, che la tradizione mi suggerisce di trovare in piccoli cactus, che taluni chiamano funghi, come il peyote. Purtroppo qui, in questa disgraziata parte del mondo, non se ne trovano, così ricorro ad altre sostanze psicotrope, in modo che si favorisca la trance senza la quale non posso esercitare le mie funzioni. Ho una domanda, da porvi: se mi trovano in possesso di una valigia di allucinogeni e racconto questa storia, voi dite che la faccio franca? In effetti, non si può escluderlo.

La cassazione, difatti, ha appena finito di osservare, suggerendolo ad un giudice di merito, che se un Tale professa il rastafarianesimo, se è un rasta, insomma (ma può essere rasta, seguace di Halie Selassie, uno che non sia un negro convinto di dover tornare in Africa? è sufficiente cantare Bob Marley senza nulla sapere del suo maestro, Marcus Garvey?), è naturale che abbia con sé quantità abbondanti di cannabis (un etto, alla faccia), giacché gli serve per officiare. Dice che così medita meglio. Ora, saltando ogni possibile obiezione sulla differenza che intercorre fra il meditare ed il rincoglionire, tralasciando di ricordare che la cannabis che oggi si coltiva ha concentrazioni di principio attivo, thc, che la fanno essere allucinogena ed altamente pericolosa, c’è però da fare i conti con le sezioni riunite della medesima cassazione, che nello stesso giro di ore hanno sentenziato essere sempre e comunque reato la coltivazione in proprio della cannabis. Quindi, se è un reato coltivarla e se non è un reato averne un etto, la domanda è: da quando hanno legalizzato l’importazione ed il commercio?
Prima che tutti giungano alla conclusione che anche in cassazione, non si sa se a fini meditativi, ne hanno fumata in abbondanza, è bene non dimenticare che quando fu varata la legge sulla droga, sul finire della legislatura chiusa nel 2006, dandole il nome battesimale di Fini–Giovanardi, i giornali si sprecarono nel metterne in luce gli aspetti punitivi e proibizionisti, mentre fummo davvero pochini ad osservare che detta legge aveva un buco enorme, tale da rendere inutile tutto il resto. Ecco, è da quel buco che è passato l’etto del rasta.
Se si consente di detenere la droga e di usarla in proprio, lasciando al giudice il compito di stabilire, secondo il suo libero convincimento e la valutazione delle circostanze particolari, quale sia la quantità conciliabile con la personalità del consumatore, ne deriva che la legge non è proibizionista proprio per niente, ma accompagna un sacco di parole vuote con il concetto di “modica quantità” ed “uso personale”, tipiche di una lunga e fallimentare legislazione italiana. Il guasto, insomma, è nella legge. La sentenza rastofila, di suo, aggiunge solo del colore.

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