Idee e memoria

Arenas e l’Isola grande

Chi crede sia esistita
un’era mitica della rivoluzione cubana,
farà bene a leggere Arenas
“Fumerò qualche sigaro cubano”. Con un programma simile come poteva non attirare la mia attenzione. E’ Pino Daniele, che canta.

Canta la sua “Isola grande”. Fumerà, dice, “in ricordo dei vecchi tempi e dell’Avana vera”. Dice d’annoiarsi, che “non c’è nulla di più noioso di un nostalgico di sinistra ? come me”. Come lui. Ed io? Nostalgico, non credo. Di sinistra, ho perso il senso della cosa. Ma il senso delle parole mi è chiaro, e quel che canta Daniele è una boiata. “C’era una volta un’isola grande/ c’era un comandante/ la grande musica nel cuore/ che parla di rivoluzione”. Altro che nostalgia, quella Cuba lì, quell’Avana lì, è esistita solo nella testa malata dei rivoluzionari fasulli, allevati a mode e consumi. Nell’Isola grande, quella vera, le cose andarono assai diversamente, fin dal primo istante. Avete mai sentito parlare di Reinaldo Arenas?
Avere fra le mani il suo “Otra vez el mar” è commovente. Anche solo toccarlo. E’ straordinario che esista. Quante volte ha dovuto scriverlo? La prima volta il dattiloscritto fu distrutto dalla persona, a Cuba, cui lo aveva affidato; la seconda volta, dopo che l’aveva riscritto da capo, lo nascose sotto le tegole d’un tetto, e lì lo trovò la polizia, nel mentre lo tenevano in carcere, e fu distrutto; lo scrisse la terza volta, e questa volta fu chi lo portò all’estero a manometterlo, così che l’editore francese pubblicò un testo nel quale l’autore non si riconosceva; lo riscrisse una quarta volta, questa volta partendo da quel che era riuscito a raccogliere. Ed è questa la versione che ho in mano. In francese, “Encore une fois la mer”, perché in italiano non ha trovato un editore. Prima d’avere nostalgia di qualcosa, a proposito di Cuba, sarà bene leggerlo, Reinaldo Arenas.
In italiano si trova “Prima che sia notte”, per l’editore Guanda. Cominciò a scriverlo mentre era ricercato dalla polizia e, praticamente, viveva sugli alberi. Ragione per la quale doveva interrompere la scrittura al sopraggiungere delle tenebre (e dedicherà una pagina dolce alla luna, compagna di quelle notti). Un controrivoluzionario? Al contrario, il giovanissimo Reinaldo s’era arruolato nelle truppe castriste, e questo prima che prendessero il potere. Un antemarcia, si sarebbe detto nell’Italia del ventennio. Poi, per premio, gli fu consentito frequentare la scuola rivoluzionaria per i contabili. Dove assistette al disvelamento ideologico del regime, al crescere della ferocia repressiva di Fidel Castro. Fino alla maturazione, fino all’apoteosi della dittatura militare, fino al delirio egolatrico di cui Cuba ancora soffre. Di cui Cuba si libererà con la morte di un despota inutilmente longevo.
Ma Reinaldo Arenas, combattente della rivoluzione, non prese le distanze dal castrismo per ragioni politiche. Avvenne il contrario: fu il regime a prendere le distanze da lui, perché restava uno scrittore, non rinunciava a descrivere la realtà che i suoi occhi gli restituivano, ed era omosessuale. Tutte colpe gravi, per il moralismo trinariciuto dei regimi. Raccontare la verità, poi, è osceno.
Ricordare, come fa Arenas, che il cognato di Fidel Castro era un ministro del governo Batista, è una bestemmia. Così com’è una bestemmia ricordare che Batista se ne andò senza neanche combattere, il 31 dicembre 1958, e che, nonostante questo, Castro ci mise parecchi giorni per scendere dalla Sierra Maestra. Il valoroso comandante se la faceva sotto, non riusciva a credere d’avere vinto senza combattere. La fila dei carri armati, alla testa della quale entrò all’Avana, fu tutta una sceneggiata. La gente non ne poteva più di Batista, “scendemmo dalle colline e fummo accolti come eroi”.
Per prima cosa Castro fece organizare i processi, se così possono chiamarsi quelle farse che si tenevano nei cortili, senza verbali. Fece fucilare qualche seguace di Batista, poi passò a fucilare i suoi amici, a partire da quelli che si mostravano perplessi per la forma che prendeva il suo modo d’intendere la rivoluzione. “Perché ?si domanda Arenas- la stragrande maggioranza del popolo e gli intellettuali non si resero conto del fatto che stava incominciando una nuova tirannide?”, e non si risponde, se non con il ricordo di quelle giornate di festa, di quella gioia che s’incontrava per strada e che, forse, servì a non vedere quel che non si voleva vedere.
Una dittatura peggiore di quella di Batista. Sì, peggiore. Il nonno di Reinaldo era un fruttivendolo, d’idee liberali. Leggeva Bohemia, una rivista che, sotto il regime di Batista, manteneva una certa autonomia critica. Magari paludata, ma critica. Con Castro per Bohemia cambiò musica, e nessuna critica fu più tollerata. C’era più libertà, o meno dittatura, con Batista che con Castro. Ah, quante orecchie si faranno male a sentirlo dire; quanti stomaci si torceranno. Ma il pregiudizio di chi si difende con l’ignoranza non ferma la forza delle cose, e la storia parlerà chiaro: Castro fu assai peggio di Batista.
Per certuni, poi, sembra quasi che Castro sia quel che serve per i cubani. Non è vero che non c’è libertà, vi dicono, ma siete mai stati a Cuba? Già, ma i cubani non sono poi così diversi dagli europei, non sono diversi i giovani. Quando le truppe sovietiche soffocarono nel sangue una timida primavera democratica, a Praga, la gioventù democratica d’Europa si sentì ribollire il sangue. Anche quella cubana, che organizzò una manifestazione. “Credo ?scrive Arenas- che sia stata una delle ultime marce di protesta che si sia potuto organizzare all’Avana”. Da allora in poi le organizzò il governo, per protestare contro chi denigrava Cuba. Quella sera stessa cominciarono le retate, e fioccarono anni ed anni di carcere e di lavori forzati. Di lager, di gulag, chiamatelo come vi pare.
Di quale Isola grande è nostalgico, il nostalgico di sinistra Pino Daniele? “Lavorare nei campi o fare il becchino erano gli impieghi che venivano offerti agli intellettuali parametrados. Era evidente che era arrivata la notte, per tutti gli intellettuali cubani. Già allora era impossibile pensare di abbandonare il paese, perché dal 1970 Fidel Castro aveva proclamato che chi voleva andarsene se n’era già andato, e aveva così trasformato l’Isola in un carcere”. E’ il destino del comunismo: costruire muri, erigere barriere, armare i fucili, affondare le barche di quanti sono disposti a tutto, pur di fuggire da tanta felicità. Forse troppa.
Nessuna dittatura, mai, da nessuna parte, è riuscita a sopprimere i cenacoli d’uomini liberi. E l’Avana sommersa, che Arenas ci fa vivere, trasmette ancora il brivido dell’intellettualità clandestina, del poetare pirata, delle pagine lette fra amici. Fra i quali s’infiltravano gli informatori, esponendo tutti al rischio del carcere per il solo fatto di avere composto un verso, d’avere vergato una pagina. A quel tempo era ancora vivo Lezama Lima, uno scrittore che fece della ricerca linguistica la sua missione, un intellettuale, come diremmo noi, non impegnato politicamente. Solo un poeta. Solo. “Ricordati ?disse a Reinaldo- che la nostra unica salvezza è la parola. Scrivi”. Il giorno dopo era morto, le autorità impedirono che il suo cadavere fosse visto. Volevano impedire anche i funerali, ed Arenas fu diffidato dall’andarci. Ma lui ci andò, come altri. Oramai il suo tempo era scaduto.
Qualche settimana dopo era detenuto al Morro. Un fortezza di taglio spagnolesco, attorno alla quale i turisti passeggiano. Dentro, l’inferno della tortura. Reinaldo tenta il suicidio, ma è sfortunato, non gli riesce. Altri, più abili, riescono ad autodecapitarsi. Cercate nelle sue pagine il racconto di quella detenzione, giacché ogni riassunto sarebbe un oltraggio.
Grazie a qualche falso turista, Arenas aveva già fatto uscire alcune pillole della sua opera. Era conosciuto, specie in Francia. Alcuni si mossero per organizzare la fuga. Ma fallì. Scontò la pena, poi i lavori forzati. Poi la fuga riuscì, la fuga dall’Isola grande. Dopo la fuga l’umore ricorrente dei cubani che sono costretti ad abbandonare la loro terra, l’umore degli esiliati, che non trovano più patria.
Da esiliato, fece nuove scoperte: “Scoprii un animale inesistente a Cuba: il comunista di lusso. Ricordo che durante un banchetto all’Università di Harvard un professore tedesco mi disse: ?Posso capire che tu abbia sofferto nel tuo paese, ma io sono un grande ammiratore di Fidel Castro e apprezzo quel che ha fatto a Cuba’. In quel momento il professore aveva un enorme piatto di cibo davanti e io gli dissi: ?Mi sembra bello che lei ammiri Fidel Castro, ma allora non può finire il piatto che ha davanti, perché nessuna delle persone che vivono a Cuba, salvo gli alti funzionari, può mangiare roba simile’. Presi il piatto e lo lanciai contro il muro”.
Ma hai voglia a lanciar piatti, ben presto s’accorse di cos’è la potenza egemonica di quei comunisti di lusso: era, per lui, più facile pubblicare da detenuto cubano che da uomo libero in occidente, perché da detenuto di lui si valorizzava l’opera letteraria, da uomo libero si detestava la testimonianza contro il dittatore.
Si suicidò, Reinaldo Arenas. Scrisse un addio: “Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera”. E noi, girando fra le mani il suo “Otra vez el mar”, ancora piangiamo la libertà che non arriva, il carnefice che sopravvive, il mondo che Reinaldo racconta. Benché sia lui, il vincitore. Di lui rimangono “Necesidad de libertad”, “Persecucion”, “El portero”, “Viaje a La Habana”, “Celestino antes del alba”, “El palacio de las blanquisimas”. Di Castro resterà assi meno. E quel poco sarà il ricordo di un despota: colui che, nel corso del ventesimo secolo, ha più a lungo affamato ed oppresso il suo popolo.
Ci pensi, il nostalgico di sinistra, il canterino che s’annoia. E quando gli vien voglia di fumare un sigaro cubano, ricordi che al Morro, per i detenuti, “la miglior forma di pagamento erano i sigari; un buon sigaro era un lusso, in carcere”. Arenas ne ebbe un paio. Così gli pagarono le lezioni di francese. Sì, perché in quel carcere c’erano detenuti disposti a pagare, in sigari, per potere apprendere il francese. Ed è a questa gente che voltiamo le spalle, quando fingiamo di dimenticare quale infernale pozzo di merda è la Cuba di Fidel Castro.

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