Idee e memoria

Carcere e drogati

Nell’interminabile confronto fra chi sostiene la necessità di penalizzare l’uso della droga, e chi, all’opposto, ne chiede la depenalizzazione, mi colloco, da molti anni, fra i primi.

E da molti anni, noi proibizionisti, aggiungiamo due cose : 1) coloro i quali vengono trovati in possesso di droga dovrebbero sempre potere scegliere fra il carcere ed una comunità; 2) non è la penalizzazione della droga che porta in carcere i giovani, ma la vita stessa del drogato, costantemente costretto a commettere reati.

Ma, si sa, i giornali non amano i ragionamenti. Ed i giornalisti non hanno tempo per capirli, o per riferirli. C’è chi pensa che sia buon giornalismo quello che semplifica e predigerisce, quello che si esprime “come parla la gente”, è così finisce con l’esprimersi come s’esprime la gente peggiore. Su questa strada i giornali arriveranno presto ad essere composti solo di titoli e fotografie. Ed alcuni ci sono già arrivati. Fatto è che la semplificazione giornalistica ha sempre imposto che gli schieramenti fossero due : chi era favorevole e chi era contrario a mandare i drogati in carcere. In questa semplificazione (per il vero un po’ rozza) io stavo fra i primi.

Chi non cambia mai idea, si dice, è uno stupido. Il che non impone di cambiare idea per sembrare intelligenti, ma impone di essere sempre pronti a criticare le proprie affermazioni. Così, in tutti questi anni, mi sono chiesto cento volte se, per caso, non stessi sbagliando, se, magari, non fosse più giusta e più umana una legislazione antiproibizionista e contraria ad ogni forma di detenzione del drogato. E cento volte mi sono risposto che no, che una simile legislazione sarebbe stata improntata all’egoismo ed all’incoscienza, quando non al lucido desiderio di eliminare una parte consistente della popolazione drogata.

Il mio ragionare, però, aveva una pecca : non conoscevo il carcere. Non potevo, del resto. Fatto è, comunque, che chiedevo di mandare delle persone in un posto a me sconosciuto. Per questo motivo, con letture e con domande, manifestavo un certa curiosità nei confronti dell’universo carcerario. Detto e fatto : per una delle tante vie della vita e della storia, mi sono ritrovato (ingiustamente, se mi permettete di dirlo. Ma questa è un’altra storia.) a conoscere il carcere. Ed in carcere, per molti giorni, ho convissuto con molti, troppi ragazzi drogati.

Uno spettacolo raccapricciante. No, non la loro condizione, non le loro crisi, che sono le crisi di sempre, fuori o dentro il carcere non cambia niente, finché non si spezza la catena più pesante, quella della droga. Raccapricciante è il modo in cui questi esseri umani vengono trattati. Abbandonati a se stessi, privi di ogni assistenza, di ogni conforto. Non prigionieri, ma dannati. Imbottiti di psicofarmaci da un personale medico che desidera solo non avere seccature. Il messaggio che lo Stato, la collettività, noi tutti, mandiamo a questi ragazzi è chiarissimo : “stai qui, addormentati, taci, non rompere le scatole, tanto presto, prestissimo, con gioia di noi tutti, potrai tornartene in giro a farti la tua droga preferita, ed a crepare, se proprio vuoi crepare”. Così questi ragazzi passano le giornate, fra sonno e veglia, buttati su luride brande, sognando l’imminente ritorno alla strada.

Tutto questo dovrebbe essermi bastato per cambiare idea. A che serve un carcere simile? a chi giova? perché costringervi inutilmente le persone? Ed invece no, proprio questa esperienza mi ha ancora di più convinto di quanto fosse giusto il ragionamento che fin qui abbiamo fatto. E’ stata una prova importantissima, forse decisiva.

A quei ragazzi mi sono proposto per quello che sono, anche con tutte le estremizzazioni del caso. “Ma tu sei per mandarci sempre in carcere?”, domandavano. “Si”, rispondevo. E non eravamo ad un dibattito o ad una tavola rotonda, no, eravamo in carcere. Mi guardavano un po’ storto, anche se questo non incrinava l’umana solidarietà fra poveri disgraziati. Però tornavano sempre a parlare, cercavano un dialogo per spiegarmi che, in fondo, a loro la droga piace e, dunque, perché mai ci si doveva impicciare degli affari loro, e dato che rispondevo loro di cercare, almeno con se stessi, di non mentire, di non venirmi a raccontare che la loro vita di drogati era piacevole, ecco che che il discorso ricadeva costantemente su questo punto. E quel parlare era salutare. Piano piano cadevano le maschere, cadeva la recita del duro, del determinato a drogarsi per tutta la vita. Si passava attraverso il dire : “ormai sono così, che ci posso fare”. Poi ci si spingeva al : “in fondo non è stata colpa mia”. Quindi si prendeva a calunniare le comunità, e fra queste San Patrignano, riferendo di amici che c’erano stati e che avevano subito ogni forma di violenza (e questo, tanto per cambiare, è il messaggio rozzo che i giornalisti passano spesso, per “fare notizia”), ma poi domandavano : “è così che stanno le cose? perché tu li difendi?”. Ed a quel punto partiva la richiesta d’aiuto, magari nella commozione che ci derivava dall’avere aperto un rapporto di lealtà, sincerità, amicizia.

Così ho potuto constatare che in quel posto infame, in quel buco nero e profondo, si possono realizzare le condizioni perché una mano si tenda a chiedere aiuto. E quello è un momento magico, è il momento in cui si comincia ad intravedere la via d’uscita, quello in cui si smette di mentire a se stessi. La tragedia è che in quel momento nessuna mano si tende ad offrire aiuto.

Quei ragazzi hanno bisogno di un aiuto che restituisca loro, prima di tutto, la dignità di uomini. Che li consideri in quanto uomini, non in quanto drogati od in quanto carcerati. A me è capitato di offrire quell’aiuto, ed offrendolo ho capito che non era inutile quella sofferenza, se poteva dar luogo a futura felicità.

Se quei ragazzi non fossero mai finiti in carcere, se non avessero vissuto quell’esperienza terribile, se non avessero sbattuto la faccia contro quel muro di pietra, se fossero rimasti liberi di essere schiavi della droga, sarebbero stati più felici? No, non lo sarebbero stati. Forse avrebbero potuto coltivare l’illusione di esserlo, ma la loro illusione si sarebbe dissolta mille volte al giorno davanti agli occhi del loro bambino, oramai affidato alla nonna, davanti alla necessità di prostituirsi, davanti alla necessità di rubare, sempre, continuamente, senza la speranza di cambiare.

A questa infelicità quotidiana li condannerebbe un antiproibizionismo egoista e cieco innanzi alle sofferenze altrui. A questa infelicità quotidiana li condanna un’amministrazione carceraria che rifiuta ogni ruolo rieducativo, preferendo limitarsi ad immagazzinare e custodire carne umana. Ma se le cose vanno così, non è detto che debbano andare sempre così. Basta poco, in fondo, basta sapere nutrire sentimenti di comprensione, di rispetto, di umanità verso gli altri, e verso questi ragazzi. Per molti, purtroppo, questo è già troppo.

Condividi questo articolo