Silvio Berlusconi era il mandante delle stragi di mafia. Massimo D’Alema era complice e divenne presidente del Consiglio per fare un piacere alla mafia. Romano Prodi ebbe un ruolo poco trasparente, diciamo connivente. Non so fra quanto tempo giungerà in libreria l’intervista autobiografica di Carlo Azeglio Ciampi, certo è che, se continua a spararle così grosse, si dovrà interrompere la trepidante attesa e invitarlo a fare un cosa dignitosa e seria: tacere.
Intervengo sul punto perché detesto l’ipocrisia e la viltà, mentre il Presidente Ciampi è uno di quei personaggi che inducono l’una e l’altra. Sembra che sia un’offesa alle sacre carte metterne in evidenza gli svarioni. Nel caso di Ciampi sono gravissimi e multipli, ma ho visto la sola reazione de Il Foglio. Quindi me ne occupo. Con rispetto, ma senza timori reverenziali.
Intervistato dal Corriere della Sera di giovedì, cogliendo l’occasione per l’ennesimo lancio del libro, è riuscito a lamentarsi di non avere ricevuto l’incarico per formare il governo, nel 1998, come pure gli era stato offerto da D’Alema. Quest’ultimo aveva chiesto di vederlo con urgenza e si era precipitato a Santa Severa, dove Ciampi, ministro, si trovava (fateci caso: era al mare, secondo altre anticipazioni del libro fatale, anche quando scoppiarono le bombe mafiose ed era capo del governo, non sarà che ci sta troppo, al mare?), per dirgli che doveva fare il governo, altrimenti non lo avrebbe fatto nessuno. Nel giro di poco, invece, lo fece D’Alema stesso. E, fin qui, siamo ai rimpianti. Ma sentite cosa Ciampi riesce a sostenere: “ La verità, ne sono convinto, è che la mia presenza a Palazzo Chigi non era gradita a troppa gente. A cominciare dalla mafia, come dimostrò la stagione delle bombe cominciata nel maggio ’93, nella mia prima esperienza da premier”. Ora, lasciamo perdere il fatto che il “premier” non esiste, nella nostra Costituzione, le parole di Ciampi hanno un significato inequivocabile: a. si considera il bersaglio delle bombe del ’93 (magari poi ci spiega anche il perché); b. fu per favorire la mafia che a Palazzo Chigi, nel ’98, andò D’Alema.
Perché abbiate chiaro il livello di lucidità che accompagna queste parole, devo ricordare che nel governo D’Alema Ciampi era ministro del Tesoro, come già nel governo precedente, quello di Prodi. A quella stagione si deve la svendita dissennata di Telecom Italia, tanto per non smarrire la memoria. Quindi, aveva cognizione d’essere il nemico numero uno della mafia, che le bombe scoppiavano per favorire i nuovi soggetti politici, riteneva che D’Alema fosse meno sgradito a cosa nostra e, per questo … andava a fare il suo ministro del tesoro. Giudicate voi.
Non è finita. Dato che D’Alema gli aveva annunciato che avrebbe ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, anziché adontarsi reclamando il rispetto del dettato costituzionale l’ottimo Ciampi si dedicò ad un’attività più produttiva: compilò la lista dei ministri. Così, quando Scalfaro avesse eseguito l’ordine della sinistra, sarebbe stato già pronto. Essendo uomo di raffinata cultura, scrisse i nomi dei ministri in caratteri greci, in modo da farli restare segreti anche in caso di smarrimento. Giuro, non è una pagina d’avventure delle giovani marmotte (non mi pare il caso di scomodare Dan Brown). Il quesito è uno, piuttosto imbarazzante: ma l’Italia era ancora una Repubblica parlamentare o qualcuno aveva fatto credere a Ciampi che potesse divenire commissario del popolo, coadiuvato da propri amici e collaboratori?
A tutto questo ha già risposto Prodi, che credo abbia ragione, naturalmente smentendo. Oltre tutto, immaginare una specie di trama ai danni di Ciampi, ordita da soggetti che, nel frattempo, si stavano facendo la pelle a vicenda e supponendoli tutti meglio visti dalla mafia, è cosa che offende, in un sol colpo, l’onore dei citati, l’intelligenza di noi tutti e, anche, il senso del ridicolo.
Presidente Emerito, da livornese (mezzo, io) a livornese (vero, Lei), quel che moltissimi pensano, leggendo quelle Sue parole, è che sia già bello che pronto per Villa Arzilla, ove narrare la propria epopea agli altri residenti. Però stanno zitti, maestri nel servo encomio e generosi nel codardo oltraggio. Ritengo, invece, che nella Sua rabbia non trattenuta ci siano ingredienti non esauribili nel tempo trascorso, il rimpianto di un disegno non riuscito, il richiamo a quel che si ritenne dovesse essere e invece non fu. Se deve dire qualche cosa la dica, confermando che quella nostra scuola laica e azionista non è la fucina dei livorosi senza etica, dei potentati senza consenso, dei presuntuosi senza senno, delle logge senza alloggiati, ma, semmai, i banchi ove si formarono uomini disposti a tutto, pur di non piegarsi. Se, invece, non ha nulla di preciso e chiarissimo da dire, se ritiene di doverci ancora pensare un po’, faccia con comodo, ma anche una cortesia, a sé stesso e a noi tutti: taccia.