Ho letto il libro di un prete. Un chierico che si mantiene fedele alla sua ecclesia anche dopo che questa ha chiuso i battenti, che reclama la grazia del dio, incurante della sua inesistenza, che officia ancora il rito, sperando così di riportare al mondo quel che il mondo ha seppellito. Ho letto il libro di Armando Cossutta (“Una storia comunista”, Rizzoli).
Tanto è insoddisfacente la memorialistica alla Fassino, che riconosce l’errore e l’orrore comunista, ma quasi gli fosse estraneo, senza il dolore di chi all’errore ha preso parte; tanto è affascinante il dolore di Ingrao, che si accorge dell’errore, ma non riesce a capacitarsene, a trarne tutte le conseguenze politiche; tanto è incredibile la posizione di Cossutta: l’errore non c’era, il comunismo resta un grande ideale di libertà. E c’è un passaggio, nel suo libro, che racconta e chiarisce tutto.
L’antefatto risale al 1962: manifestazione in piazza Duomo, a Milano, contro gli Stati Uniti che avevano minacciato Mosca qualora avesse installato i missili nucleari a Cuba: “a mezzanotte il cinema Anteo era gremito di compagni, più di mille attivisti mobilitati per suscitare subito manifestazioni in difesa della pace”. La pace? quale pace? quella sovietica, dei missili nucleari, era guerra, non pace. La manifestazione degenera in scontri con la polizia, nel corso dei quali muore Giovanni Ardizzone, un giovane già militate fascista, poi divenuto comunista, iscritto alla Federazione giovanile del PCI. Storia luttuosa, che molti anni dopo sfociò nell’assurdo, se non nel ridicolo: Cossutta, nel 1994, si reca in visita a Cuba, ospite di Fidel Castro, ed in quell’occasione inaugura una scuola intitolata ad Ardizzone. “Ricordo ?scrive- come Fidel Castro volesse sapere da me i particolari precisi di quell’episodio drammatico. Ne parlammo a lungo, nel suo studio all’Avana, discutendo poi per tutta la notte sulle vicende dell’Italia e sulle sue infinite battaglie democratiche”. Roba da matti.
Ha parlato tutta la notte con il dittatore Castro, e gli ha parlato di democrazia, in un’isola dove non esiste la libertà di stampa, di parola, di manifestazione, dove gli scrittori vanno in carcere per aver scritto romanzi, dove la gente è ridotta in miseria da un comunismo dispotico e forsennato. Con El Barba che chiede particolari su un morto ammazzato durante degli scontri, mentre lui li fa fucilare, morire di stenti in galera, picchiare a sangue nelle caserme. Ed il compagno Cossutta chiacchiera con il locale despota, che se provasse a fare la metà di quelle cose in Italia lo si chiamerebbe fascista. Ma Castro è comunista, e, agli occhi del chierico rosso, questo l’assolve d’ogni peccato.
Secondo me, Cossutta non ha neanche capito perché dovette “illustrare a Fidel sin nei minimi particolari tutti i momenti cruciali dell’arresto del Duce e della sua fucilazione, dal momento che egli non li conosceva”. Già, però Fidel si sentiva nei panni del fucilato.
Attenti, però, a non perdere quel che c’è d’interessante, nel libro: le faccende di quattrini, le valigiate di dollari destinate ai comunisti italiani.
Cossutta fa finta d’essere schietto e di non aver peli sulla lingua, in realtà è molto, molto reticente: sì, certo, ci dice, sono stato a lungo il sovrintendente di quei finanziamenti, sono stato il presidente dell’Italturist, ho promosso gli scambi economici con l’Unione Sovietica (quali?), ma da dove arrivassero quei soldi, a chi fossero consegnati e che fine facessero, son cose di cui non mi curavo. Che signori, questi comunisti. Non c’era reato, dice. Col cavolo che non c’era reato. Se solo avesse provato ad essere l’esponente di un partito democratico nel pieno dell’inquisizione giudiziaria gli avrebbero contestato, nel più tenue dei casi, il riciclaggio. Gli avrebbero contestato, come ad altri fu contestato, il rapporto con la banca vaticana. Cosa c’entra? C’entra, perché Cossutta ci dice (ed è una chicca) che le valige arrivavano piene di dollari, e che i compagnucci andavano in Vaticano per cambiarli in lire. Mica male, vero?
Poi c’erano le “società ovviamente molto vicine al Pci, i cui consigli di amministrazione erano composti da uomini di fiducia del partito”. E fra queste c’è la Restital “che si occupava soprattutto di scambi commerciali. Anche questa era guidata da uomini di fiducia del partito”. Fossero stati socialisti si sarebbero chiamati “faccendieri”, fossero finiti nel tritacarne giudiziario li avremmo conosciuti come “tangentari”, e, questo, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno commesso dei reti. Ma erano dei fidati compagni comunisti, gente onesta, tutta d’un pezzo.
Anche se, a ben leggere, lo stesso Cossutta ben sapeva che l’intera faccenda era tutt’altro che linda e pinta, tanto che, quando lo invitarono, nel 1982 (legge sul finanziamento dei partiti già vigente) a chiedere un sovrappiù di dollari, da destinarsi a Paese Sera, egli prende contatto con i sovietici, che gli danno appuntamento a Parigi, perché: “non era opportuno affrontare questo tema in Italia e allora (?) passai la frontiera fingendomi addormentato sul sedile posteriore dell’auto”. Non deve più essersi svegliato, specie una decina d’anni dopo, quando i difensori ed i tutori della democrazia finivano in galera per essersi procurate le risorse finanziarie necessarie a non soccombere innanzi a tanto entusiasmo pacifista e pluralista.
A Cossutta dobbiamo un chiarimento. Egli, con velenosa malizia, racconta di quando si recò, con Enrico Berlinguer, a visitare una base missilistica sovietica (quale migliore posto per coltivare la pace), e, ammirato innanzi a tanto splendore, s’interroga: “c’è davvero da chiedersi che cosa abbia potuto portare alla fine un tipo di società che aveva saputo raggiungere nel campo culturale, in quello artistico, in quello tecnico e nello stesso campo militare traguardi avanzati ?”. A domanda si risponde: caro Cossutta, quel sistema doveva crollare, perché tutti i regimi che negano la libertà e la dignità della persona umana, presto o tardi, si sciolgono nel fango. E così è stato.