“Cuba non vivrà più sull’industria dello zucchero. Questo periodo appartiene ai tempi della schiavitù”. Lo ha detto Fidel Castro, ma ha la memoria corta, o assai selettiva, perché a puntare sulla canna da zucchero come principale coltura cubana è stato lui, non gli schiavisti. Confusione imbarazzante, o rivelatrice, a seconda dei gusti.
La scelta castrista, del resto, non era del tutto campata per aria. Non era, insomma, come i quattrini buttati nella ricerca per selezionare mucche capaci di produrre latte in continuazione, cui si legava l’altra avventura, per cui furono chiamati botanici da ogni parte, finalizzata a dare sostanza all’erba cubana: bella, verde, rigogliosa, luminosa, ma poverissima di nutrimento. Come si potesse volere mucche più produttive in un Paese che non era in grado di sfamarle è uno dei misteri, ridicoli, delle dittature. Ma la canna da zucchero era cosa diversa.
Intanto perché a Cuba cresce bene, portandosi dietro anche l’industria del Ron, o Rum. Poi perché l’intera produzione annuale veniva assorbita dall’Unione Sovietica e dagli altri Paesi dell’est, che pagavano fino a cinque volte le quotazioni di mercato. Era il prezzo del sostegno politico ed in cambio, almeno, ricevevano lo zucchero. Ma la storia presenta, talora, singolari coincidenze: nell’anno di massima produzione, il 1989, crollava il muro di Berlino, liberando i popoli ed i Paesi dal giogo sovietico. Con il che smisero anche di comperare lo zucchero cubano. Seconda coincidenza: nell’anno di minima produzione, il 2005, i prezzi dello zucchero, sul mercato internazionale, arrivano ai massimi. Ma il regime, sul mercato, non ci sa e non ci vuole stare.
In tutti questi anni non solo sono cresciuti interi villaggi attorno alle fabbriche ed ai campi di canna, non solo non si è promossa alcuna innovazione nel processo di coltivazione, raccolta e raffinazione, ma i macchinari sono divenuti sempre più vecchi e, come le vecchie autovetture che fanno di Cuba un museo automobilistico a cielo aperto, consumano più petrolio di quanto non valgano. Ed è a questo punto che Castro, quasi cinquanta anni dopo la rivoluzione, dice: basta con la canna da zucchero, che ricorda lo schiavismo. E che altro gli ha ricordato, in tutti questi anni?
Ma la fantasia del líder non si esaurisce, un nuovo fronte si apre: morte al baseball viva il cricket. Il che, considerata la bravura dei cubani e la popolarità del baseball, rasenta la follia. Ma Castro pensa ad altro: il baseball è troppo yankee e, cosa ancora più importante, i giovani giocatori scappano da Cuba, per andare ad agguantare altrove soldi, carriera e libertà.
Ora, non ditelo agli inglesi, che ne vanno matti, ma il cricket è un giuoco da fighetti. Quando mi capita di vederli, in Inghilterra, li invidio per come sono vestiti, belli, bianchi bianchi, con i maglioni a V che portano i colori della squadra. Giuocano senza scomporsi, per tempi interminabili, nel tentativo di far cadere un legnetto che si trova su tre paletti. Una specie di antenato del baseball, dove si corre poco e non si suda. Lo ripeto, non ditelo agli inglesi, che si arrabbiano (in modo composto), ma è facile capire perché nelle colonie del nuovo mondo quello sport non ebbe gran successo, considerato che lo sforzo più grande lo facevano le lavandaie e le stiratrici addette alle divise.
Già me li vedo, imbiancati come damerini, sotto il sole cubano. Lo vuole il líder, il comandante. Il quale, in questo caso, ha omesso di ricordare che i primi giuocatori di cricket, a Cuba, arrivarono dalla Giamaica e dalle Barbados (colonie inglesi), erano neri e tagliatori di canna da zucchero. Era l’epoca dello schiavismo, appunto.