Idee e memoria

Eutanasia

Sono favorevole all’eutanasia, al diritto di ciascuno di rifiutare una condizione di vita che non sia più tale, ma alcuni recenti casi mi hanno convinto della necessità di distinguere, e molto, in questa materia. Intanto per chiarire una cosa: l’eutanasia non è il suicidio assistito. Al secondo sono contrario.

Il problema si è posto con il progredire della medicina e con la capacità, quindi, di mantenere in vita persone cui la natura avrebbe assegnato un più sbrigativo destino. Tali progressi non possono che essere salutati con gioia, salvo il fatto che talora sfociano in quelli che chiamiamo accanimenti terapeutici. Già qui si devono riconoscere due diverse tipologie: il caso di chi vive solo grazie al sostegno di una macchina, ma ha perso capacità di intendere e volere; e quello di chi si trova in condizione analoga, ma comprende la propria situazione ed è in grado di esprimere (sebbene non di mettere in atto) una volontà. Nel primo caso la decisione di staccare la spina non può che essere presa dai congiunti, o da chi si trovi ad esercitare la loro funzione: decisione dolorosa, ma comprensibile e da consentire. Nel secondo caso la scelta spetta al diretto interessato, il che la rende ancora più dolorosa e drammatica, ma non comporta l’attività di terzi, che lo sopprimano, bensì la cessazione di quel sostegno meccanico che ne impediva la morte.

Caso del tutto diverso, invece, è quello di chi non sopravvive in virtù di un sostegno meccanico esterno e che non cesserebbe di vivere al semplice venir meno delle cure, eppure ritiene di vivere una vita invivibile ed intende sfuggire alle sofferenze che questa comporta. Una situazione di questo tipo può indurre al suicidio, ma può anche presentarsi il caso, come quello della signora inglese che è giunta fino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in cui la volontà del suicidio non è retta dalla materiale possibilità di metterlo in atto, richiedendosi, quindi, un aiuto da parte di altri. La Corte ha negato questo diritto, e credo abbia fatto bene.

Sul terreno del dolore ci si deve muovere con il cappello in mano, evitando di pronunciare certezze che non esistono. Ma, trattandosi di persone inabilitate a muoversi, come si fa a sapere se l’incaricato della soppressione ha agito su reale mandato dell’interessato? E come si fa a sapere se tale volontà sia lucida e reale, e non indotta da una più che ragionevole depressione? Il fatto che la morte non sopraggiunga per mera cessazione delle cure cambia, e non di poco, l’oggetto della nostra riflessione. Questo in generale, e non nel caso specifico di quella signora inglese, capace di avviare e sostenere una lunga battaglia legale. Segno, questo, di un’indubbia volontà, ma, anche, di una non meno indubitabile vitalità.

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