Sentir raccontare, leggere la storia e la sostanza della rivoluzione cubana da uno che l’ha fatta, l’ha voluta, l’ha combattuta è quanto di più istruttivo si possa immaginare. Carlos Franqui non potrà essere liquidato come controrivoluzionario, perché fu un rivoluzionario, un attivista contro il regime di Batista che pagò con il carcere e sulla propria pelle il prezzo delle scelte fatte.
Fu l’animatore ed il direttore di Radio Rebelde, che già durante la guerriglia diffondeva nell’isola la voce dei rivoluzionari, rivolgendosi anche alle truppe regolari per indicare loro la via della diserzione e della rivolta. Fu l’uomo che salvò la vita di Fidel Castro, perché quando furono sorpresi allo scoperto e mitragliati da un aereo fu Franqui ad indicare a Castro una buca dove mettersi al riparo: c’era posto per uno solo e quel posto fu ceduto ad un Fidel “più importante per la rivoluzione”. E tutto questo non è negabile.
Fa, dunque, una certa impressione leggere quello che quest’umo scrive: “Che lo si voglia o meno, Fidel Castro è il figlio putativo di Fulgencio Batista, senza l’uno non sarebbe esistito l’altro, e se è vero che Castro moltiplicò all’infinito i mali di Batista, nessuno dei due si salva dai crimini commessi né dall’uso della forza”. E, allora, com’è possibile che un oppositore di Batista abbia combattuto per Castro? E’ possibile perché la rivoluzione non fu castrista fin dall’inizio, Castro era certamente un leader importante, un capo, ma ce n’erano altri, c’erano altri movimenti ed altri sentimenti e lui stesso non era comunista, non si diceva e non si pensava tale. Ma cammin facendo il giovane futuro dittatore fece fuori quelli al suo livello, in questo aiutato proprio da Batista, e poi cambiò natura alla rivoluzione, allineandola ad un comunismo posticcio ed in salsa caraibica. Quindi quel che è successo dopo non era nelle premesse, e chi combatté per la libertà non sapeva di star lavorando per una più ferrea dittatura. “E’ una verità incontrovertibile – scrive Franqui – che il trionfo della Rivoluzione castrista è stato, ed è tuttora, l’avvenimento più tragico della storia di Cuba”.
Il libro, “Cuba, la rivoluzione: mito o realtà” (Baldini Castoldi Dalai), non è solo un tentativo di restituire verità storica ad una vicenda raccontata come fosse mitologia, è anche un affresco di vita cubana, dove si ritrovano i suoni, i colori e gli odori tanto cari a chi ha conosciuto quest’isola straordinaria. La fanciullezza e la prima giovinezza da figlio di un povero, ma tenace, tagliatore di canna. Le esperienze e le sofferenze che lo portano alla ribellione, al desiderio di rivoluzione per sanare le ferite dell’ingiustizia, dell’enorme differenza fra ricchi e poveri. Le sorti umane e familiari affidate talora alla clemenza degli elementi naturali, come i cicloni che possono spazzare via tutto quello che si ha, tutto quel che si è costruito. C’è tutto e c’è il racconto di una vita dedicata con passione alla cultura, che mano a mano ha visto spegnersi e trasfigurare gli ideali per cui si era combattuto.
Come può uno spirito libero accettare di piegarsi al concetto secondo cui “qualsiasi critica è opposizione e qualsiasi opposizione e controrivoluzionaria”, per cui mai nulla poteva osservarsi sugli errori commessi da Castro e dai suoi, perché con ciò stesso si entrava a far parte dei nemici batistiani, nel frattempo comunque scomparsi? Non si piegava, e non si piegavano i tanti uomini che avevano fatto la rivoluzione, che l’avevano anzi avviata, perché furono decisive non le battaglie sui monti della Sierra, ma i movimenti d’opposizione presenti nelle città, la rete degli agitatori politici protagonisti della propaganda e del sabotaggio, tutti uomini che non vollero piegarsi e che, per questo andarono incontro alla galera, ai campi di concentramento, alla morte. Ma non per mano del loro nemico d’allora, ma a cura di chi allora diceva di combattere con loro e poi si sarebbe rivelato il loro aguzzino.
E non solo questo avveniva a Cuba, non solo chi aveva a cuore la libertà se la vedeva negata e repressa da una rivoluzione che avrebbe dovuto esaltarla, ma il grande equivoco si riproduceva anche all’estero, dove buona parte della cultura si rifiutava di sentire le parole di Franqui, preferendo addormentarsi cullata dalla ninna nanna della propaganda. Esemplare, da questo punto di vista, il rapporto con Sarte, lo scrittore francese che divenne vate e rappresentante della rivolta europea contro il passato, che accettò di visitare Cuba, che s’inorgoglì nel vedersi osannato da un popolo così lontano, ma che poi volle chiudere le orecchie a quello stesso Franqui che lo aveva invitato quando questi tentò di spiegargli cosa stava succedendo. Sarte non è un caso isolato. Di suo, Sartre, ci mise una rara incapacità di capire la politica (e si ricordi la lunga battaglia contro Aron, la cui ragione dovette infine ammettere), ma con altri intellettuali divideva altre due caratteristiche davvero poco commendevoli: la viltà e la vanità.
Significativo ed istruttivo il ritratto di Guevara. Dei due, fra Franqui e Guevara, il democratico era il primo. Guevara alternava periodi di fascinazione per i dogmi comunisti ad altri di trasparente ammissione d’essersi sbagliato. Carattere autoritario ed iracondo, seppe però riconoscere a Franqui la fermezza con cui gli aveva fatto notare in anticipo gli errori che poi lui avrebbe riconosciuto. E se il rapporto fra loro due era duro, ma leale, la stessa cosa non poteva dirsi dei rapporti fra Guevara e Castro. Franqui lo dice con chiarezza: non è detto che Castro fosse fra gli organizzatori della cattura e della morte di Che Guevara, di certo ne fu uno dei più contenti.
Il ritratto della Cuba odierna è impietoso: “Si vive nella diffidenza, bisogna guardarsi da tutti e da tutto, non esiste la minima libertà, e così si vive un giorno dopo l’altro, un anno, dieci anni, quarantacinque anni, una vita sempre uguale, senza illusioni né speranze né piaceri, che si sia bambini, giovani o anziani. I cubani si rifugiano nel corpo, nel sesso, nel ballo, nel rum di pessima qualità, o nella ricerca del turista che ti salvi, o nei famigliari in esilio, nelle barzellette sarcastiche e violente contro i responsabili della loro tragedia. L’immensa maggioranza non è schierata con il sistema, ma è convinta che lottare per cambiarlo conduca soltanto al carcere o alla disgrazia, e sono come il bottegaio di cui parla Václav Havel: al sistema non importa ciò che si pensa, basta che si ubbidisca, perciò quando lo convocano per le sfilate, lui c’è, e se non si presenta dispongono dei mezzi per cacciarlo dal lavoro e da qualsiasi posto. Il malcontento è generale, e così pure l’apatia”.
Franqui, come molti, è un cubano che ha dovuto rinunciare a Cuba e, come gli altri, ne sente la nostalgia. Ma ha dedicato la vita a Cuba ed ai cubani, ha dedicato se stesso alla dimostrazione che quell’apatia deve essere sconfitta, che i cubani hanno diritto di aspirare alla libertà e ad un mondo migliore. L’essere stato un eroe della rivoluzione gli è stato più d’ostacolo che d’aiuto. Ma sarà il tempo a rimettere in equilibrio la bilancia, mentre il caudillo, il dittatore, il barbuto negatore d’ogni diritto ha già conquistato il posto che gli spetta nella mente e nel cuore di quanti non si sono ubriacati di mitologia.