Probabilmente sarebbe inorridito, se avesse potuto partecipare ai propri funerali, se avesse potuto leggere le tante parole scritte in sua memoria, preparate per tempo, nell’uso del coccodrillo, perché da tempo si sapeva che era malato.
Lui, Giorgio Gaber, era un borghese non anticonformista che aveva in odio il conformismo. Detestava il conformismo dello stare dalla parte giusta, con la camicia giusta, con le scarpe giuste, con l’espressione giusta, e così aveva in uggia il deprecabile conformismo dell’anticonformismo di maniera.
Era uno di noi, uno come noi. Apparteneva al mondo della borghesia consapevole di se stessa, ma non per questo sazia, anzi, proprio per questo, coltivante il dubbio e la dissacrazione, capace di comprendere che se molto bene si trova nelle proprie piccole cose, nei propri amori, nei propri sentimenti, nessun bene sta nell’ideologizzazione del proprio status. Per questo Gaber è stato un terribile provocatore, per questo lo abbiamo amato, e lo abbiamo odiato.
Abbandonai un suo concerto dandogli del fascista. Già, perché nel pieno del terrorismo italiano andava sostenendo che non bastava che un carabiniere morisse ammazzato perché si potesse farne un eroe, non bastava che un politico fosse rapito ed assassinato perché se ne potesse fare uno statista. Parole al vetriolo, gettate sulle ferite aperte dai militanti dell’omicidio e della strage. Parole intollerabili, che scatenavano (e questo mi faceva infuriare) l’applauso di quanti vi leggevano una sorta di appoggio agli sparatori, contro gli sparati. Dopo quella volta non ho perso un solo suo spettacolo, tornando ad amarlo. Gaber pronunciava quelle parole fregandosene del contesto, non tenendolo in alcun conto, non avendo nulla da dire e da spartrire con i terroristi, si rivolgeva al suo mondo e vedeva dilagare la retorica ed il conformismo. Era un poeta, non un politico. Ed andava bene così.
Chi lo ricorda solo cantante ha, evidentemente, un formazione tutta televisiva. Gaber fu un grande autore di teatro, con Luporini, ed un attore raffinato. Cominciò mescolando il teatro alla canzone, poi arrivò ad allestire uno spettacolo senza canzoni: “Il Grigio”. Quella è poesia allo stato puro. L’ultima scena è poesia e filosofia, roba alla recanatese. Ed il tutto veniva porto con leggerezza, con autoironia, sapendo che, fra il pubblico, vi sarebbero stati livelli diversi di lettura ed ascolto. Finito “Il Grigio”, Gaber prendeva la chitarra e portava tutti dalla rocca antica a porta romana.
C’è un pezzo recitato che ancora mette i brividi: “Il comunista”. Un pezzo sublime. Racconta che il comunismo fu una gran schifezza e fra i comunisti abbondarono gli imbecilli ed i profittatori, ma racconta anche che nel dirsi comunisti molti rappresentavano a sé stessi un sé medesimo diverso, migliore, capace di aspirare ad un mondo diverso e più giusto; e che oggi, morta quell’illusione, siamo tutti più poveri, più miseri. Terribilmente vero.
L’ideologia era la bestia nera da cui non ci si poteva liberare. Il mondo parlava di tramonto delle ideologie, con ciò intendendo, in realtà, il tramonto della Grande Ideologia: il comunismo. Ma lui cantava che l’ideologia “malgrado tutto credo ancora che ci sia”, e c’era perché non tramontava la passione, l’ossessione per una propria diversità, una diversità che era la lente colorata capace di dare spiegazione al tutto, che restava l’aspirazione di chi annega di fronte alla complessità delle piccole e grandi cose, e che, al tempo stesso, se è non si sa cos’è, e se c’è non si sa dov’è. In altre parole: le ideologie sopravvivono non per loro forza, ma per nostra debolezza.
Gaber non fu solo il cantore di una borghesia incapace di vero impegno politico e civile, fu anche il poeta dei suoi sentimenti migliori, capace di cantare l’amore in epoche in cui il femministico politicamente corretto voleva si parlasse di orgasmo. Si facevano i seminari (sì, si faceva anche quello) sull’orgasmo. E lui recitava che chi, nel mentre lei è già pronta, chi non è rimasto con le scarpre che non si slacciano ed i jeans incastrati nelle scarpe, chi non si è mai trovato in quella condizione, non sa nulla dell’amore.
Un poeta non lascia testamenti, non ci sono componimenti ultimi e riassuntivi. Un poeta è la sua opera, nell’insieme. Semmai c’è da dire che Gaber, già assediato dalla malattia, non ha voluto farci mancare una riflessione a personale consuntivo: “La mia generazione ha perso”. Ed anche questa volta ha cantato di noi e con noi. Solo che, ripeto, si tratta di un consuntivo e non di un testamento, perché quel sentimento duro e pesante, pur realistico e disincantato, trovava maggior terreno nell’animo di un uomo che vedeva terminare la sua giornata, accostava le persiane e regalava i propri sentimenti. Ma quell’uomo, che ora riflette nella penombra, è lo stesso che cantò: libertà è partecipazione.
Se ne è andato senza cantare (salvo inediti) la propria malattia, aveva già cantato il dovere di mentire all’amico malato, aveva già cantato l’umanità dolente degli ospedali, il senso di colpa di chi se ne va guarito, mentre altri rimangono in una corsia dove si mangia, si ride, e poco più in la un uomo muore. Sarebbe impossibile leggere la sua opera senza partire dal suo pudore.
Voglio aggiungere che mi colpì e mi commosse la sua ultima apparizione televisiva. Da molti anni Gaber non frequentava più la televisione, preferendo i teatri ed il pubblico che ascolta per la prima volta un testo. L’ultimo spettacolo già appariva affaticato, con una gamba che lo tradiva. Accettò di partecipare alla trasmissione di Adriano Celentano. L’antico compagno, con il quale aveva rotto bruscamente, gli aveva proposto di ripartire da dove avevano chiuso. Così misero su una scenetta significativa: parlavano della conzone rubata: Celentano ammetteva il furto, mentre Gaber minimizzava il danno. Con leggerezza, con ironia. Perché altre son le cose delle quali vale la pena occuparsi. Accadde che, nella serata di Celentano, fu Gaber a cantare che avrebbe voluto veder spronfondare la chiesa “con tutti i papi ed i giubilei”.
Nella galleria dei grandi borgesi Gaber merita sia affisso il suo ritratto. Sempre ricordando che si tratta di una galleria cui non si è stati capaci di trovare uno sbocco.