Idee e memoria

I temibili 150

Non c’è verso di liberarsi dalla retorica, non c’è verso di spingere l’Italia a guardare nello specchio della propria storia. Assuefatti al racconto mendace, si attendono le ricorrenze per ribadirlo. I 150 anni dall’Unità d’Italia mi terrorizzano, temo lo tsunami di toni ispirati e sguardi spiritati. Lo temo ancor di più perché mi considero un figlio del Risorgimento. Già patisco quando passa il 9 febbraio e nessuno si ricorda di quel miracolo di coraggio e civiltà che fu la Repubblica Romana. Vi perse la vita, fra i tanti altri giovani valorosi, Goffredo Mameli. I triunviri, Giuseppe Mazzini in testa, imposero il rispetto di tutti i simboli religiosi, che non bastò ad evitare che il papa chiamasse i francesi a sparare sugli italiani. Quel giorno me ne vado, da solo, a Porta San Pancrazio, immaginando la febbre di libertà che aveva preso i morituri. Temo, fra le altre cose, che cominciando le celebrazioni a marzo, l’anno prossimo, ancora una volta, ci si dimentichi di loro.
Ma questo è un dettaglio, sebbene di gran valore. I 150 anni mi spaventano perché li vedo arrivare male. Compreso il fatto che a citarli sia l’ordinanza di custodia cautelare per chi ne segue i lavori, quasi fossero un evento imprevedibile. L’Unità deve essere ricordata, certamente, e un popolo deve conoscere la propria identità.  Non è, però, quel che vedo prepararsi, più coerente, semmai, con quel che si celebra nelle scuole italiane: l’ignoranza della storia e la sua versione fumettistico-ideologica.
Perché, per venire al dunque, il “Comitato dei garanti”, sente il bisogno di ribadire, in un documento ufficiale, che le celebrazioni dell’Unità devono servire a chiarire che tutto porta e tutto si spiega con la Costituzione? E perché, nel dir questo, che è già discutibile, si avverte la necessità di specificare l’inestimabile valore della sua prima parte? Seguendo tale indirizzo (e state certi che lo si seguirà, perché questa è la vulgata conformista della nostra storiografia, e ad opporsi saranno o i mattacchioni che detestano l’unità o una irrisoria e irrisa minoranza) si confonde l’Unità con la Repubblica, che sono diverse e distanti. La storia della Repubblica prende corpo con l’epilogo della seconda guerra mondiale e, secondo me, con la conferenza di Yalta, conclusa l’11 febbraio 1945, secondo, invece, la versione più accreditata e autorevolmente sostenuta, la radice della Repubblica sta nella Resistenza. Non è un tema per specialisti (non lo sono), ma una chiave per capire quel che avvenne dopo: altri europei organizzarono la Resistenza ed ebbero coraggiosi combattenti antifascisti e antinazisti, ma poi non ebbero né la Repubblica né la Libertà. Finirono sotto il dominio comunista, passando da una dittatura all’altra. A noi andò meglio, ma non per merito nostro.
La storia dell’Unità comprende la Repubblica, ma non solo. Comprende, ad esempio, anche il fascismo. Come si può ricostruire la storia della Resistenza saltando quella del fascismo (come propone il comitato)? La risposta chiedetela a Giampaolo Pansa, che ancora si batte per potere raccontare una pagina della nostra biografia nazionale, che dovrebbe essere già da un cinquantennio nei sussidiari scolastici, e che attiene proprio all’idea di Patria. Le celebrazioni, in altre parole, si prospettano come la prepotente riaffermazione di una lettura parziale della nostra storia. E noi, figli del Risorgimento, ne soffriamo.
A proposito di pagine saltate: è previsto nulla dalle parti di Porta Pia? Perché la seconda cosa che si vuol cancellare è che l’Unità si fece contro il volere del Vaticano, che a lungo chiamò i cattolici all’estraneità rispetto al nuovo Stato. Poi giunse un prete, Luigi Sturzo, che la pensava diversamente e creò il Partito Popolare e, nel 1919, lanciò un appello “ai liberi e forti”. Lo misero a tacere, come da richiesta del cavalier Benito Mussolini, che in cambio diede il Concordato, suturando così quella ferita risorgimentale. Quello stesso concordato che fu messo nella Costituzione, con il voto congiunto della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Scusate la sintesi, avete le mie orecchie a disposizione per tirarle e darmi lezioni, ma le vostre, d’orecchie, hanno sentito qualcosa sul tema, circa le celebrazioni?
Vedo, invece, che il tema dell’Unità sollecita subito il richiamo della “questione meridionale”. Tema irrisolto, problema aperto, e così via luogocomunando. Sicché soffrirò, oltre che per le ascendenze risorgimentali anche per quelle meridionali. Orbene, se introduco l’ipotesi che l’Unità si fece secondo le regole sabaude, il che costò al Sud la retrocessione, salvo poi compensarlo con la pratica d’aiuti economici che ne ha pesantemente corrotto l’anima, selezionando una classe dirigente di profittatori e un popolo di mantenuti, che fate, mi mettete nella lista dei nemici dell’Unità? Vi avverto che non ci sto, e chiamerò a difesa Antonio De Viti De Marco, ammesso che qualcuno ricordi ancora di lui. Celebrando, invece, sentiremo dire le stesse eterne cose, come se il Mezzogiorno sconti una sorta di condanna storia, o genetica, che ne fa una delle zone più sussidiate e sottosviluppate d’Europa.
Al luogocomunismo ideologico siamo abituati, ci conviviamo fin dai banchi di scuola. Gli italiani l’hanno combattuto con l’antidoto dell’ignoranza, che è un po’ devastante, ma funziona. L’idea, però, di mesi dedicati alla gnagnera dei preconcetti, costruiti con le figurine risorgimentali, senza neanche leggere le didascalie, preoccupa. Me, mi trovate al Gianicolo, o sui gradini del monumento al bersagliere, che ancora punta verso la breccia che liberò Roma.

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