Disperatamente bello. Un romanzo che è tale solo per la chiave narrativa scelta dall’autore, ma che è, prima di tutto, la testimonianza viva di un destino. La descrizione di una storia che scorre, senza però riuscire a corrodere i massi che deviano il corso della vita cubana. Due protagonisti, che si passano continuamente il testimone, sovrastati da un protagonista che tutto pervade: la storia e la realtà di Cuba.
Leonardo Padura Fuentes non è, purtroppo, l’unico uomo di cultura, l’unico scrittore che, per restare libero, ha dovuto lasciare la sua patria, Cuba. Non è l’unico cui il regime castrista avrebbe assicurato una vita di galera e di repressione. Non è l’unico che ha raccontato l’esilio, e lo struggente bisogno di tornare sull’isola. No, sono in tanti. Sono talmente tanti che non si capisce come facciano, altri signori, che dicono di frequentare la cultura, ad ignorarne totalmente l’esistenza, a disprezzarne gli scritti, a non udirne il grido, a farli sparire dal limitato spazio che concede loro il paraocchi. Ma Padura Fuentes ha il merito di avere inserito questa realtà in una prospettiva storica, mostrando come il destino dell’esilio è ricorrente, per la cultura cubana.
L’altra cosa notevole è la struttura del romanzo (anche se faccio fatica a considerarlo un romanzo). Il lettore sa, fin dall’inizio, di leggere la storia di due esili, ma scopre solo alla fine che una parte di quel che ha letto era stato descritto, ricercato e spiegato nell’altra parte. Padura Fuentes ha una solida esperienza nella narrazione investigativa, sviluppata nel ciclo delle “Quattro stagioni”, che hanno come protagonista il tenente Mario Conde. Quella tecnica trova ne “Il romanzo della mia vita” un’applicazione nuova, divenendo lo strumento per raccontare due storie vere. Due vite vere.
Una è quella di José María Heredia, capostipite dei poeti cubani, morto, in esilio, nel 1839, a soli trentasei anni. L’altra è quella di Fernando Terry, alter ego dell’autore. Tutti e due costretti a fuggire, tutti e due destinati, per ragioni e circostanze diverse, a tornare a Cuba con il permesso di restare solo poche settimane. Tutti e due destinati a rovistare fra le proprie amicizie, alla ricerca del traditore, ma tutti e due s’accorgono di essere stati traditi dal destino, da una sorte di cui furono oggetto, neanche troppo consapevole. Tutti e due incapaci di separare la propria vita dagli odori, i colori, i corpi dell’Avana e di Cuba, dove vive un’umanità che il nostro contemporaneo trova povera, costretta ad arrabattarsi per mettere in tavola del cibo, umiliata dal confronto con la ricchezza dei turisti, spinta a trasformare in ristoranti le antiche dimore, ma pur sempre umanità orgogliosa, piena, ricca di una cubanità che vive anche nei particolari.
Ma la cosa più terribile la troviamo nella parte in cui si raccontano vicende ottocentesche, lontane dalla ancora neanche annunziata dittatura castrista, e, proprio per questo, disperatamente riproposte dall’esule di oggi. Cospiravano, i giovani intellettuali d’allora, immaginavano la loro patria indipendente dalla Spagna e libera. Era una cospirazione bonaria, più che altro un volo del pensiero, visto che a quei giovani mancavano le basi per un’insurrezione vera e propria. Reali furono, invece, la repressione, gli arresti, le fughe. Ed è proprio all’esito infruttuoso di quel loro sognare che una più anziana guida svolge la sua riflessione definitiva: “Sono stato un illuso a credere che questo paese fosse capace di cambiare il suo destino. Ma non c’è una soluzione, non ci sarà per molto tempo e forse non ci sarà mai. Un paese che preferisce la tirannia piuttosto che affrontare qualche rischio, merita tutte le tirannie”. Una profezia che poi si ritrova, tristemente avverata, nel presente di disperazione, alcolismo, rassegnazione, che sono pur sempre migliori della miseria morale di chi ha abbandonato anche solo la voglia di sognare.
Padura Fuentes ha potuto maturare sulla propria pelle tanta lucida disperazione. Di certo quel che scrive è vero in quella Cuba che, ancora oggi, vive sotto il tallone di una dittatura che è un residuato fossile del secolo terminato nel 1989. Una dittatura che ha nel suo destino la morte del dittatore. Che giungerà tardi, e senza che quel popolo, privato dei suoi figli migliori, abbia saputo alzare prima la testa.