Idee e memoria

Il Marchio ed il suo rovescio

Vestire marchiato, indossare roba griffata, si vuole che sia non elegante, non raffinato. Eppure quel genere di capi è così richiesto da avere fatto nascere un’autentica industria del falso (i cui punti vendita sono più visibili e più prossimi al pubblico, e sospetto anche più comunemente accettati, a giudicare dal fatto che coprono l’intera area circostante il Parlamento ed il governo, senza che nessuno abbia nulla da dire).

Allo snobismo borghese s’è poi aggiunta la non meno borghese (lo siamo tutti) Naomi Klein, con il suo successo mondiale “No Logo”, ove sostiene che i marchi sono cosa cattiva ed ingiusta perché portatori di due pessime cose: la globalizzazione ed il capitalismo. Ora, posto che io amo sia la globalizzazione che il capitalismo, noto che la Klein è un geniaccio del birignao, capace di far editare il suo libro in molte lingue, ma sempre con la stessa copertina e la stessa grafica bicromativa del titolo, capace, quindi, di giovarsi della riconoscibilità e personalità del logo, del marchio.

Il marchio, dunque, ha un grande successo, ma anche molti nemici dichiarati, sebbene a loro volta marchiati. Così colpisce che un uomo all’apparenza mite, usando la sola arma del ragionamento ed il solo strumento del diritto, abbia pensato di sfidare la forza del luogo comune ed il fascino del luogocomunismo, imbarcandosi, come ha fatto Ferdinando Cionti, nella scrittura di un libro titolato al contrario: “Sì, logo” (Spirali). Un testo che favorisce riflessioni in molte direzioni, la prima relativa al titolo: chissà se Cionti se n’è accorto o se è incorso (vista anche la collana che lo ospita) in un classico freudismo, ma meglio non poteva spiegare la contraddizione della Klein, che non mettendosi al vento del suo successo, del suo marchio.

Per Cionti il marchio è un veicolo di libertà e, come me, vede avvolto di luce positiva quel che alla Klein fa orrore, o, meglio, quello che la Klein trova utile segnalare come orribile. La globalizzazione non è sfruttamento e sopraffazione, ma, appunto, occasione di libertà. Ragionandoci: qual è l’opposto di globalizzazione? Credo che sia il colonialismo. Le nazioni più forti conquistano le meno militarmente attrezzate e cominciano a sfruttarne, a proprio vantaggio, le ricchezze naturali. Con la globalizzazione, invece, sono i Paesi più poveri a compartecipare dello sviluppo e della ricchezza dei più sviluppati. Certo, lo fanno sfruttando la spinta di fattori produttivi meno costosi, a cominciare dal lavoro umano, ma l’alternativa reale non è fra il pagare meno ed il pagare più quei fattori, bensì fra il farli entrare nel circuito produttivo ed il tenerli fuori, nella fame e nell’arretratezza. Il valore del marchio è, per i Paesi in via di sviluppo, per i loro grandi mercati e per i loro lavoratori, una straordinaria occasione, perché con la sua potenza evocativa consente di delocalizzare la produzione mantenendo ferma la forza di mercato. A me interessa poco dove una scarpa è stata prodotta, m’interessa che il suo prezzo non sia elevato e che il marchio ne testimoni la qualità attesa. Se così non fosse ancora oggi tutti i prodotti di consumo verrebbero dai distretti industriali specializzatisi nel mondo capitalista, invece è così, e queste produzioni sono posabili in Cina.

Attenti alle contraddizioni. Quando le produzioni si spostano in Cina (lo prendo come Paese simbolo) i sindacati si lamentano perché viene tolto lavoro ai propri affiliati. Ed hanno ragione, perché è vero (salvo aggiungere che i loro affiliati ne traggono beneficio, perché per comperare un paio di scarpe non devono più lavorare un mese, ma una giornata). Ma se questo è vero, come si può poi sostenere che quel lavoro esportato sia un male per chi lo riceve? E’ un non senso. Si dice: ma i lavoratori cinesi sono sfruttati. Punti di vista, per loro si guadagna in un mese, in fabbrica, quel che guadagnavano in un anno piegati sui campi. La considerano un’opportunità, non una disgrazia. Va tutto bene, quindi? No, perché c’è una materia dove i valori non sono negoziabili, ed è la libertà. Io, occidentale, non mi sento minimamente in colpa se compero scarpe che costano meno, grazie al lavoro di uomini che vengono pagati meno, ma guadagnano più di quanto potrebbero altrimenti, mentre trovo intollerabile che a quei Paesi non si ponga il problema della libertà individuale: politica, religiosa, economica, civile, culturale.

Come si può meglio condurre una battaglia per le libertà, chiudendo le frontiere? No, quello è solo protezionismo economico, destinato ad impoverire chi resta fuori (ed anche chi sta dentro). Al contrario, invece, consentire forme nuove di guadagno e non cessare di fare con i mezzi del digitale, con i satelliti e con la larga banda quel che un tempo si faceva con Radio Londra, servirà a far crollare i dispotismi, eliminando anche l’odioso “dumping sociale”. Quindi Cionti ha ragione: il marchio è un amico del nostro mondo, che è fatto di libertà.

Le pagine del suo libro approfondiscono talmente l’argomento che il lettore resta colpito da quante sfumature sono possibili, ma in quelle pagine, forse per scelta e forse per mantenerle sul terreno del diritto, manca una considerazione di ordine più politico: chi sono, da noi, solitamente, i nemici del marchio? Il vasto agglomerato dei no-global, dei disubbidienti, delle sinistre ideologiche e delle non meno ideologiche destre, ha in comune i tratti dell’antioccidentalismo, dell’antiamericanismo. Li accomuna il rifiuto di un mondo costruitosi nella negazione, contemporanea, dei dispotismi ideologici affermatisi nel ventesimo secolo. Contro quel mondo si muove anche il pacifismo degli ipocriti, il libertarismo dei falsi, il non allineamento di quelli che hanno perso la bussola e non si accorgono che i sentimenti di rigetto si destano solo quando vengono indirizzati contro il mondo delle libertà. Perché non vedo manifestazioni contro la dittatura cinese? Perché non si sfila contro l’atomica coreana o quella iraniana? Perché non si strilla contro i terroristi che ammazzano innocenti? Perché tutto quel mondo di farabutti è poco interessante per chi ha scelto di rivolgere l’attenzione solo contro il mondo di cui è figlio, e grazie al quale può manifestare, sfilare e strillare.

Se Cionti mette bene in luce le ragioni di diritto che militano a favore del marchio, sarà bene non tenere nell’ombra le ragioni politiche. Anzi, è proprio la politica a regalarci la beffa, sulla quale Cionti potrebbe utilmente riflettere: alle manifestazioni per la pace vedo spesso sventolare le bandiere rosse con il volto di Che Guevara, anch’egli riprodotto, come marchio, su magliette, cappelli, oggetti di consumo d’ogni genere, usato come marchio, appunto, ma falsandone la vita: Guevara era l’opposto di un pacifista, era un combattente, era uno che voleva fare la guerra, e non aveva neanche torto, visti i nemici che si sceglieva (Castro compreso). Ecco, in nome del marchio, l’avvocato Cionti potrebbe utilmente difendere la memoria dell’argentino.

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