Idee e memoria

Il papello e il calendario

Frugando nella propria memoria di pentito a rate, Giovanni Brusca ha precisato la cronologia della presunta trattativa fra la disonorata società e lo Stato: prima non lo rammentava, ma adesso, pensandoci bene, il suo capo, il disonorato Totò Riina, gli disse che lo Stato “si era fatto sotto” dopo l’assassinio di Giovanni Falcone e prima di quello di Paolo Borsellino. Correva l’anno 1992, mese di maggio. Fosse per me, o si trovasse negli Stati Uniti, uno che fa il collaboratore a spizzichi e bocconi, raccontando le cose a distanza di decenni, già avrebbe perso ogni beneficio. Premesso ciò, le parole di Brusca non fanno che confermare il modo in cui noi abbiamo ricostruito quelle vicende, smentendo l’omertà istituzionalizzata di chi si ostina a non prendere atto della realtà: se trattativa ci fu, si concluse durante il governo di Carlo Azelio Ciampi.

Sempre Brusca, deponendo ieri al processo contro Mario Mori (e già questo dovrebbe indurre tristezza: il mafioso che parla e il carabiniere sul banco degli imputati), ha aggiunto che fu Gaspare Spatuzza, altro assassino con il cervello da strangolatore, a raccontargli dell’attentato allo stadio Olimpico, nel quale sarebbero dovuti morire moltissimi carabinieri, in modo da consumare la vendetta mafiosa contro l’Arma, che non aveva rispettato i patti. Quali? Non lo dice mai nessuno. Ma facciamo finta che si possa ragionarne: siccome la mafia era stata tradita ecco che decide la strage, ma il radiocomando fa cilecca. Mannaggia, e che ti fa la disonorata società? Rimanda di una settimana, per la partita successiva? Sposta l’esplosivo, farcito di bulloni e schegge, in modo che sia devastante, da un’altra parte? No, rinuncia. Basta, è passata loro la voglia. Da che dovevano fare una strage a che si ritirano nella cupola, per sputarsi in faccia a vicenda. Ditemi: c’è un solo minchione, in questo disperato Paese, disposto a credere ad una cosa simile?

Il nostro calendario dice cose diverse. Falcone viene ucciso da perdente, il 23 maggio 1992. Vendetta? Certamente. Ne era consapevole lui stesso. Ma se la trattativa era nell’aria è difficile dimenticare chi erano quelli che avevano fatto fuori Falcone, impedendogli di combattere la mafia: Luciano Violante, Elena Paciotti, magistratura democratica. Poi, dice Brusca, la trattativa entra nel vivo, e i disonorati fanno saltare in aria Paolo Borsellino, 19 luglio 1992. Anche lui perdente, anche lui emarginato. I suoi avversari? Si trovavano nella politica, ma anche nella procura della Repubblica di Palermo. Morto Borsellino si provvede a mettere a tacere chi gli era vicino, a cominciare da Carmelo Canale, che da carabiniere integerrimo si fra tredici anni di processo come fosse mafioso. Quindi parte la stagione delle bombe messe ai piedi dei monumenti, secondo una condotta inedita, dato che i mafiosi sono essi stessi un monumento all’ignoranza. Il tutto continua non fino a quando il telecomando loffio non fa esplodere la bomba contro i carabinieri, provocando la depressione nel club dei macellai, ma fin quando il ministro della giustizia, Giovanni Conso, non revoca il carcere duro, per due volte, a un discreto numero di disonorati. Revoca avvenuta su sollecitazione del Dipartimento amministrazione penitenziaria, dal quale era stato allontanato Nicolò Amato, inviso al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per affidarlo a Alberto Capriotti, voluto da Scalfaro e ossequiosamente subito dal governo Ciampi. Quel Capriotti segnalato e sostenuto dal capo dei cappellani carcerari, quindi da oltre Tevere, nel mentre una bomba esplodeva a San Giovanni in Laterano, sede della diocesi romana, e presso altri siti religiosi.

Nel 1994, quando queste faccende sono già chiuse, si fanno le elezioni e Forza Italia le vince. Dura poco, ma da quel momento la versione più gettonata consiste nell’assegnare ai vincitori il ruolo di referenti mafiosi, pretendendo di postdatare bombe e presunte trattative, facendo figurare i morti perdenti come eroici resistenti, ma cancellando il ricordo di chi li avversò. Ora se ne ricorda pure Brusca, le cui parole, però, non per questo smettono d’essere le parole di un uomo senza parola e senza onore. La giustizia ha bisogno di prove e la storia di ricerche che concilino fatti e razionalità. Quelli che noi abbiamo raccontato, da soli, sono fatti.

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