Si può pagare la colpa d’avere avuto ragione? Ancor più concretamente: si può finire stritolati dalla macchina della giustizia penale avendo la colpa di essere stati dalla parte giusta?
La risposta è affermativa, ed i problemi che ne derivano sono molto complessi, in un intrecciarsi d’interessi economici, passione politica, vicende umane e personali. Una matassa così intricata da avere spinto Pierluigi Severi, uomo che vive la politica come la sua stessa vita, uomo abituato ad usare gli strumenti dell’analisi sociale, dell’esame storico, dell’osservazione critica, a dismettere le armi di sempre e ad usare lo strumento della narrativa. Già questa scelta dice molto, moltissimo. E’ come se la realtà italiana dovesse essere consegnata al un tempo che va al di là del presente, ancora incapace di leggerla.
La trama del racconto (“I giorni del rancore”, Baldini Castoldi Dalai) non può essere disgiunta dal modo originale che ha trovato per svolgerla. La storia è quella di un socialista (come Severi) che vede crollare il proprio mondo, che finisce egli stesso nelle maglie di Tangentopoli, che vede salire sul banco degli accusatori gli eredi di quel muro, quello di Berlino, ferita materiale e metafora della divisione fa il modo libero e quello comunista, che con il suo crollo aveva segnato la linea di confine fra gli sconfitti ed i vincitori, fra quanti avevano torto e quanti avevano avuto ragione. Sul banco degli accusati finirono i secondi.
Per carità, non erano certo immuni da colpe, gli accusati. Severi le racconta, direi addirittura con cattiveria, con crudeltà, frugando nelle loro case, nella loro intimità, trovando i mille indizi di colpe che in democrazia si pagano, ed è giusto così. Ma l’incredibile è che quelle colpe erano il niente, e per certi aspetti il riflesso necessitato, rispetto al torto dei novelli accusatori. Resi forti, questi ultimi, dal rancore alimentato dalla sconfitta storica, e dall’affermarsi prepotente d’interessi economici, non solo italiani, che volevano azzerare il governo del Paese. E ci riuscirono. Questo è il contesto, ma il valore del romanzo va ben oltre i fatti, aggredisce l’identità culturale dell’Italia.
Il racconto procede su due binari e tempi paralleli. Un passato che va dalla lealtà all’Italia fascista alla formazione politica delle generazioni successive. Un presente che mostra come la vita interna ai partiti non fosse il regno dell’intrallazzo, ma la realtà nella quale si formava la classe dirigente, premiando i più capaci ed i più impegnati. Andando avanti quei dirigenti politici si compromettevano. Con cosa? Con la realtà. Nient’altro che con la realtà di un Paese libero e democratico. Al partire delle inchieste penali, quindi, così come all’inizio del libro, si pone il primo dramma: il conflitto d’identità. Il protagonista legge il suo nome, legge le accuse, conosce il sistema giudiziario, ma fa fatica, anzi, gli risulta impossibile riconoscere se stesso, le proprie azioni e la legittimità di quel sistema.
In quella terribile impossibilità di capire le identità di ciascuno, un’impossibilità che il padre aveva già sperimentato al crollo del fascismo, sta la chiave di lettura della crisi d’identità nazionale: l’Italia è un Paese che riesce a raccontarsi la propria storia, ma solo a patto di mentire, di alterarla, di deformarla. E non perché la verità sia peggiore della sua parodia, ma perché risulta inconciliabile con la favola cui si vuol credere.
Il protagonista attraversa tutte le fasi di questo trionfo dell’assurdo, vedendo scorrere accanto a sé le comparse che sguazzano nell’ipocrisia, nella viltà, nel puro desiderio di vendetta, nella voglia di rivalsa, componendo il mosaico della farsa, fra il dramma ed il grottesco, dove la menzogna trionfa e, con questa, la pochezza fossile di molte storie nazionali, più narrabili goldonianamente che manzonianamente. Ma per far valere con se stessi, su se stessi ed in se stessi il trionfo della bugia e dell’ipocrisia, per cambiar casacca ed arruolarsi nella nuova epoca, ci vuole stoffa. Il protagonista non sembra averla, o, meglio, è fatto di diversa stoffa, come lo era anche il padre, incapace di abiurare al suo essere stato fascista (in un Paese dove tutti si raccontavano antifascisti, talché non si capisce come il regime sia durato così a lungo).
Il padre non seppe usare, su se stesso, la pistola che aveva conservato. Avrebbe dovuto farlo, sarebbe stato giusto, sarebbe stato meglio per la sua famiglia? A questo pensarono anche quanti precipitarono nel tritacarne giudiziario, in preda a quella crisi d’identità che il romanzo descrive. Alcuni lo fecero. E nulla fu più vile che lo spiegare il loro gesto come il frutto del senso di colpa. Era vero l’esatto contrario. Il protagonista si trova in mano quella pistola, la medesima, e si prepara ad usarla.
L’esito del racconto consegna al lettore una galleria di specchi. Il protagonista è un alter ego dello scrittore, che si scopre alter ego del protagonista. Non (o non solo) un giuoco letterario, ma l’invito esplicito al lettore: non accettare la versione semplice di quel che è accaduto, non assopirsi nei racconti di comodo. Si è prodotto molto dolore, ed è difficile credere che la collettività ne abbia tratto un qualche vantaggio.
Lo ripeto, è significativo anche solo il fatto che Severi abbia scelto la via della narrativa, pur non attingendo nulla dal fantastico, neanche nei particolari. Ha dato buona prova di sé, Severi, consegnandoci un’opera che speriamo serva ad evitare che qualcuno erediti ancora quella pistola.