Smetteremo mai, noi che ci perdiamo nelle volute dei Puros, di amare la terra di Cuba? Ovvio che no.
E coltiviamo il nostro amore anche se Cuba non è solo la terra del Tabacco, delle magiche mani dei Torcedor, di quelle fabbriche che sudano storia, ma, anche, la terra della disperazione descritta da scrittori come Gutierrez, Latour, Cabrera Infante. La terra dove questi scrittori vengono perseguitati per il loro solo scrivere, dalla quale devono scappare senza mai perdere, come tanti altri esuli dall’isola, la speranza, la voglia, la necessità di tornare.
Amiamo la Cuba che si trova sotto il tallone della dittatura, anche perché le persone che s’incontrano per le vie dell’Avana la temono, ma non ce n’è uno che la rispetti.
Sappiamo bene che ci sono momenti, circostanze, nella storia, che possono rendere comprensibile la sospensione delle libertà. Comprensibile, mai apprezzabile, sempre pericolosa, se anche dura lo spazio di un mattino. Ma, a Cuba, la libertà manca da decenni, mentre lo Stato è sempre più poliziesco, pervasivo, intruso, occhiuto ed ottuso. Questo ci è chiaro, e sappiamo che tanta mancanza d’aria libera si deve metterla sul conto di Fidel Castro e del suo regime, della sua dittatura personale.
Eppure, Castro è un dittatore che riesce a far credere in una specie di personale buona fede. No, non parlo delle infatuazioni castriste di una sinistra imbolsita ed imborghesita, desiderosa di coltivare miti che sostituiscano tutti gli idoli caduti nella polvere, schiacciati dalla storia, maledetti dalle genti. Non parlo di quei pezzi d’occidente che hanno in tal uggia il proprio benessere, nel quale pure sguazzano felici ed incontentabili, da spingersi ad ammirare l’altrui malessere, l’altrui miseria, l’altrui schiavitù. Non parlo di quanti han bevuto, fino in fondo, il calice delle bugie castriste, al punto da attribuire all’embargo (sempre più formale e sempre meno sostanziale, visto il via vai di turisti) le colpe della mancanza di ciò ch’è indispensabile a vivere accettabilmente.
No, mi riferisco al fatto che la straripante logorrea di Castro, il suo eterno bisogno di spiegarsi, di convincere, di trasformare a chiacchiere la realtà in modo da rendere accettabile l’inaccettabile, il suo infantile desiderio d’essere accettato, sembrano tutti sintomi di una genuinità, di una, appunto, buona fede, che lo porta, forse, a credere in quel che dice.
Ebbene, anche chi non riesce a far di Casto, come egli merita, ed a pieni voti, un Franco, uno Stalin in sedicesimi tropicali, un Idi Amin Dada vegetariano, avrà letto con ironico dolore la classifica dei ricchi, pubblicata da Forbes, ed avrà appreso che il suo patrimonio personale, ammontante a 150 milioni di dollari, supera quello della regina d’Olanda. Lasciamo perdere il fatto che quel patrimonio è incomparabilmente superiore a quello di leader politici cresciuti alla scuola delle battaglie democratiche, come Blair, perché questi sono borghesi, bottegai, rappresentanti di una genia castrianamente disprezzabile. Ma egli supera le case regnanti.
Ora, quando si è dittatori, ed in quella posizione, dal 1959, si accumula un patrimonio di quel tipo, senza mai avere svolto un quale che sia lavoro, avendo costretto i propri cittadini a non potersi scegliere neanche la casa, avendo costretto i tassisti a non disporre neanche della benzina, non si può chiedere che gli altri credano alla buona fede. Difatti, a Cuba, ci crede solo qualche turista rincitrullito dal Ron.