Idee e memoria

Il tempo di Obama

Il tempo è corso in fretta, per Barack Obama. Dalla campagna elettorale, giocata anche contro le guerre di Gorge Bush, dalle parole contro la prigione di Guantanamo, dalla mano tesa all’Iran, dal premio Nobel per la pace, all’annuncio dell’incremento delle forze militari in Afghanistan, dove la guerra continua e non si contemplano alternative alla vittoria, al contrordine sui sospettati di fondamentalismo terrorista, per i quali ha chiesto aiuto ai Paesi alleati, alla doverosa reazione contro le repressioni feroci e forsennate, operate dai teocrati di Teheran, al riprendere degli attentati sulle linee aeree americane, che lo hanno portato a pronunciare una pubblica reprimenda contro i sistemi di sicurezza, accusati di lassismo. Ora l’ipotesi di un raid in Yemen, da dove era partito un inascoltato allarme. Si tratta di mesi, in qualche caso di settimane, ed il mutato linguaggio non segnala l’incoerenza di un presidente, bensì la coerenza della Casa Bianca nel difendere gli interessi statunitensi.
Quando John F. Kennedy giurò, nel 1961, descrisse, in poche ed efficaci parole, la missione della sua presidenza e, sia per motivi politici (sono esponenti dello stesso partito) che personali (entrambe giovani), quelle parole tornano, oggi, davanti ad Obama: una nuova generazione prende la guida degli Usa, disponibile ed interessata al dialogo, con tutti, ma pronta a reagire contro tutti i nemici. Quaranta anni dopo fu un presidente repubblicano a reagire all’attacco subito, attribuendo alla guerra anche una missione ideale, utilizzandola come strumento per dare libertà e portare democrazia. L’idealismo di Bush, insomma, somigliava a quello di Kennedy, aveva tratti democratici, mentre Obama aveva preferito vestire i panni del realismo e della visione fredda, che erano stati di Richard Nixon. Ma chiunque sia il presidente, quale che sia la missione che vorrebbe assegnare al proprio mandato, nessuno può sfuggire a due costanti, affermatesi con le guerre mondiali: a. gli Stati Uniti sono il bersaglio principale di chiunque sia nemico della libertà, della democrazia, dei valori fondanti su cui si reggono i sistemi occidentali; b. gli Stati Uniti non possono sfuggire al confronto militare, se provocati su quel terreno.
E’ ben chiaro che la dittatura iraniana cerca nello scontro con l’Occidente la forza per mantenersi a galla, facendo leva sul nazionalismo persiano, oltre che sul fanatismo religioso. E’ ben evidente che i fondamentalisti di Al Quaeda intendono interpretare esplicitamente quei sentimenti antioccidentali che galleggiano sulla marea islamica. Ed è ben esplicito che gli Stati Uniti tentano di sottrarsi a questo gioco. Ma possono farlo in due modi: accettando lo scontro e puntando a vincerlo, o tentando di evitarlo, con la diplomazia. Bush è stato accusato di avere imboccato la prima strada, trascurando del tutto la seconda. Obama ha preferito esaltare la diplomazia e il dialogo, ma ha dovuto, in fretta, prendere atto che rinunciare all’uso della forza avrebbe significato seppellire ogni speranza diplomatica. Aveva visto giusto Dick Cheney, il cattivo, l’impresentabile, l’uomo descritto come anima nera della presidenza Bush, ma, alla fine, l’unico che ha esposto la propria faccia a difesa della politica seguita, per otto anni. Si era chiesto cos’altro avrebbero dovuto fare gli Usa, una volta attaccati, ed aveva chiesto al nuovo presidente di non trascurare mai la sicurezza nazionale. Eccolo accontentato.
Obama è il primo presidente statunitense a non avere legami familiari e personali con l’Europa. Ciò poteva portare ad una pericolosa divaricazione d’interessi e prospettive, di cui qualche preoccupante sintomo s’era colto, in ripetute occasioni ufficiali. Ma la forza della storia non si domina, e gli Stati Uniti non possono fare a meno degli alleati Nato, così come l’Europa non può pensare di considerare estranee le minacce rivolte all’alleato d’oltre Atlantico. I nostri nemici sono comuni, e, benché sia sgradevole e costoso, abbiamo interesse a combatterli assieme.

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