La biblioteca è come la vita, ti rimbalza da un libro all’altro in modo talora ragionato e talora casuale, si cammina lungo viali alberati, poi si passa a reti cunicolari, sempre, comunque, si segue il ritmo del tempo. Vivere significa governarlo, sopravvivere andargli appresso. Governare il tempo, in biblioteca, aiuta a riscoprire mondi e vite, regalando e conquistando vitalità. Così, seguendo il filo di un verso, sono arrivato a J. Rodolfo Wilcock. Ah, ragazzi, che miniera.
Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio
Wilcock scriveva in italiano, ma non era italiano. Alcuni suoi scritti sono andato a ritrovarli nella collezione de Il Mondo, quando era settimanale e lo dirigeva Mario Pannunzio (ed anche ad illustrare queste pagine si trovano i disegni di Maccari, tratti da un’edizione Adelphi ed indissolubilmente legati a quella stagione del giornalismo e della cultura italiani). Capitò che il critico teatrale del Il Mondo, per qualche tempo, dovette essere sostituito, ed a farlo fu chiamato Wilcock. Ma a lui, per la verità, andare a teatro non piaceva molto, l’annoiava, allora decise d’inventare autori, registi, attori e commedie, per poi recensirle in modo assai serio. Questo era Wilcock.
Ma andiamo con ordine. Juan Rodolfo Wilcock nasce a Buenos Aires il 17 aprile del 1919, da padre inglese, Charles Leonard Wilcock, e da Aida Romegialli, argentina, di origine italiana e svizzera. Compie gli studi regolari e frequenta la facoltà di Ingegneria Civile nell’Università di Buenos Aires.
Comincia presto, ed a sue spese, a pubblicare le raccolte di poesie, e nel 1941 nasce l’amicizia con un terzetto d’eccezione: Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges. “Questi tre nomi e queste tre persone – scriverà Wilcock, anni dopo, verso il 1967 – furono la costellazione e la trinità dalla cui gravitazione, in special modo, trassi quella leggera tendenza, che si può avvertire nella mia vita e nelle mie opere, a innalzarmi, sia pur modestamente, al di sopra del mio grigio, umano livello originario. Borges rappresentava il genio totale, ozioso e pigro, Bioy Casares l’intelligenza attiva, Silvina Ocampo era tra quei due la Sibilla e la Maga, che ricordava loro in ogni sua mossa e in ogni sua parola la stranezza e la misteriosità dell’universo. Io, di questo spettacolo inconsapevole spettatore, ne rimasi per sempre affascinato, e ne conservo il ricordo indescrivibile che potrebbe conservare, appunto, chi ha avuto la felicità mistica di vedere e di udire il gioco di luci e di suoni che costituisce una determinata trinità divina”.
All’inizio del 1943 si laurea in Ingegneria Civile, e quindi entra come ingegnere nelle Ferrovie dello Stato. Partecipa alla ricostruzione della ferrovia Transandina e alla costruzione della linea ferroviaria San Rafael-Malargue. Si dimette verso la metà del 1944. Nel 1951 intraprende un lungo viaggio in Europa in compagnia di Silvina Ocampo e di Bioy Casares, e arriva per la prima volta in Italia. Tra il 1953 e il 1954 risiede a Londra, dove lavora come traduttore dell’Ufficio Centrale di Informazioni, e come critico letterario, musicale e artistico del Servizio Latino Americano della B.B.C. Ritorna a Buenos Aires.
Nel 1955 si trasferisce a Roma, dove insegna letteratura francese e inglese e collabora all’edizione argentina dell’Osservatore Romano, il giornale del Vaticano. Ma quando decide di tornare e fermarsi in Italia, nel giugno del 1957, vivendo a Roma, cambia genere di giornalismo: pubblica articoli vari, saggi, racconti, poesie, sulla rivista Tempo Presente, e poi sul settimanale Il Mondo, approda a La Nazione di Firenze, al settimanale L’Espresso, e scrive per i quotidiani romani La Voce Repubblicana, Il Messaggero, Il Tempo, e per altre riviste letterarie.
“Credo che se dovessi aiutare qualcuno a capire che sono o chi sono come scrittore – Wilcock scriverà di se stesso, rispondendo a un’intervista – rileverei due punti per me fondamentali: sono un poeta, appartengo alla cultura europea. Come poeta in prosa, discendo per non complicate vie da Flaubert, che generò Joyce e Kafka, che generarono noi (tutto ciò è da intendere allegoricamente, perché quelle persone rappresentano epoche, modi di pensare). ?Flaubert fu il primo a consacrarsi alla creazione di un’opera puramente estetica in prosa’, scrisse Borges; e scrisse lo stesso Flaubert: ?Le combinazioni della metrica si sono esaurite; non quelle della prosa’. Come scrittore europeo, ho scelto l’italiano per esprimermi perché è la lingua che più somiglia al latino (forse lo spagnolo è più somigliante, ma il pubblico di lingua spagnola è appena lo spettro di un fantasma). Un tempo tutta l’Europa parlava latino, oggi parla dialetti del latino: la passiflora in inglese si chiama passion-flower, per me le due sono la stessa parola. Quindi la lingua ha un’importanza relativa; quello che conta è di non cadere nel folclore, che è intrasferibile. Per me l’inglese è un po’ troppo folcloristico, ormai; che dire poi dell’inglese degli Stati Uniti, quando prende il volo per conto suo e si appiattisce in centoventicinque parole. È come se a un giocatore di scacchi gli dicessero: ?Qui si gioca a modo nostro, con un solo cavallo e senza torri’. Beckett, forse non se ne accorge, ma scrive quasi in latino; il suo poema Sans, del ?70, va più indietro nel tempo, sembra sumero, anzi pittografico”.
Ma, attenzione, non sempre le interviste a Wilcock filano così, sul filo della logica e della razionalità. Ce n’è una, del maggio 1973, raccolta da un giornalista della seconda rete Rai, che sta fra il surreale e l’esilarante. Il povero giornalista gli si rivolge dicendo che nei suoi libri, come ne “La sinagoga degli iconoclasti”, c’è una grande attenzione alla scienza. Wilcock lo guarda, sospira, poi dice: guardi che quelli sono tutti scienziati fasulli, autori di teorie strampalate, ma, sa, molte teorie scientifiche sembrano strampalate, poi, magari, si rivelano vere, così ho deciso di discutere seriamente anche le teorie dei miei scienziati immaginari. Il giornalista prova ancora ad interloquire, e il nostro scrittore lo interrompe: senta, anche oggi, per potere fare i calcoli sull’elettrone si assume (è la teoria dell’indeterminazione n.d.r.) che non si può misurare, non si può sapere dov’è né a che velocità si muove. E, con queste parole, sospirate fra la noia ed il divertimento, guardandolo come se avesse enunciato la teoria di uno dei suoi personaggi immaginari e non quella di Heisenberg, lascia il giornalista a domandarsi chi mai abbia intervistato.
Nel 1975 chiese la cittadinanza italiana, ma non fece in tempo ad averla, o, meglio, gli fu concessa dopo morto. Morì, difatti, il 16 marzo 1978. Quella data è scolpita nella nostra memoria per un altro motivo: rapirono Aldo Moro. E’ sepolto a Roma, nel cimitero acattolico alla Piramide.
I suoi libri non sono facili da trovare. Adelphi ha fatto un’operazione eccellente, pubblicando molte delle sue cose (dalla ricordata “Sinagoga” al magico “Lo stereoscopio dei solitari”, da “Fatti inquietanti” dove si diverte a giuocare con la cronaca, alle “Poesie”). Ma quasi tutti questi titoli sono fuori catalogo, vale a dire che non sono più in circolazione. Propongo, allora una “Lega per la riedizione di Wilcock”: andiamo tutti ad ordinare i suoi libri, così che l’editore li ristampi ed i librai li rimettano sul bancone. I lettori non avranno che da guadagnarci.