Idee e memoria

Jean Valjean

26 febbraio 1802. Romanticismo bolso, pagine datate, segnate da un tempo passato e che non sa parlarci. Così ci avevano detto ed insegnato. Ora, nel mentre ricorre il bicentenario della nascita di Victor Hugo, vogliamo essere altruisti ed invitare tutti a fregarsene della critica monocorde e grigiamente allineata ad un conformismo sussiegoso.

Aprite I Miserabili, vi si dischiuderà un mondo incredibile e straordinario, la prosa di un autore possente, cui il tempo non ha tolto niente, ma proprio niente.

Jean Valjean occuperà i vostri sogni migliori ed i vostri incubi peggiori. Questo criminale che vi prende per mano nelle prime pagine, ancora commettendo un crimine, ancora segnato dalle catene dei lavori forzati, e che vi accompagnerà nel mondo del coraggio e della bontà, che saprà dedicarsi ad una bambina con un cuore che il perbenismo delle donne a modino, che la feroce regolarità sociale degli uomini salvadanaio non potrà mai eguagliare. Forse neanche comprendere. Toverete di tutto, in questa enciclopedia dell’umano sentimento. Io, ad esempio, non riesco più a guardare una vasca con dei cigni senza tornare alla commozione di quei pezzi di pane lanciati ai pennuti e segretamente carpiti da ragazzini che vi trovavano il pasto quotidiano. Un libro grandioso, che nessuna riduzione cinematografica è riuscita a restituire nella sua forza sociale e politica.

Jean Valjen è un criminale, come criminale è l’uomo condannato a morte, in attesa di salire sul palco ed infilare la testa sotto la lama della ghigliottina. Ma chi ci pensa, al suo delitto? Hugo neanche ci dice quale fu. Semplicemente ci mette fra le mani L’ultimo giorno di un condannato a morte e ci mostra quanto il reato si separi dal reo, nel momento in cui la pena deve essere scontata, e quanto la pena di morte sia sintomo della barbarie mentale, di una totale incapacità non di perdonare, ma anche solo di capire. Il condannato è la vittima, mentre i colpevoli sono coloro i quali non si rendono conto di cosa significhi quel gesto, quanti accorrono a vedere, quanti si limitano a non voler vedere. Il primo ha violato la legge, i secondi la applicano e la rispettano. Ma il primo è un innocente, i secondi sono colpevoli.

Pensate alle campagne che ancora oggi si svolgono, tese a salvare la vita di qualche condannato a morte (sempre a patto che la condanna debba essere eseguita negli Stati Uniti, perché dei condannati in Cina nessuno si cura) cercando di dimostrare la sua innocenza, o la non sicura colpevolezza. Hugo capì il nocciolo della questione: è la vita del colpevole che deve essere salvata, non è la sua innocenza a dover prevalere, ma il suo diritto a vivere, da colpevole, certo, ma da colpevole vivente, che, in caso contrario, i colpevoli siamo noi che consentiamo ciò che all’essere umano non può essere consentito. “Nessuno tocchi Caino”, per dirla con il nome di una meritevole associazione.

Esploratore della tragedia umana, Hugo ha saputo vergare una produzione sterminata: migliaia di pagine nelle quali non si smarrisce mai il filo conduttore di una visione coerente e rigorosa. Ha, già sento gridare la critica di maniera: ma come, coerente lui che appoggiò sia la reazione che la Repubblica, coerente lui che cambiò partito? Rispose già lui, con un verso:

Fidèle enfin au sang qu’ont versé dans ma veine

Mon père vieux soldat, ma mère vendéenne

I genitori erano giunti ad odiarsi, e la madre, bigotta e conservatrice, aveva esercitato una forte influenza sul giovane figlio, che divenne legittimista e filoborbonico. Ma, crescendo, seppe rivedere, come spesso capita ai figli, la figura del padre, il generale Léopold, che Napoleone volle far conte. Il figlio della vandeana divenne l’idolo della Francia laica.

Dapprima appoggiò la candidatura di Luigi Filippo all’Eliseo, ma poi seppe condurre una battaglia a viso aperto contro colui che sarebbe divenuto Napoleone III. Noi italiani dovremmo ricordarcene, ed a me è capitato di scriverne a proposito della Repubblica Romana: il primo dei triunviri era Giuseppe Mazzini, uomo mosso da una spiritualità laica che lo faceva fratello del francese. Fu Napoleone III a tradire i repubblicani italiani, mettendo le sue truppe al servizio del papa e facendole marciare assieme a quelle del napoletano re bomba. Eppure Mazzini trattò quelle truppe con rispetto, preservandole dalla distruzione cui Garibaldi le avrebbe sottoposte, non volle umiliare gli uomini che marciavano sotto al tricolore recante il motto lamartiniano. Aveva ragione Garibaldi, e la signorilità di Mazzini fu assai mal ripagata. George Sand si vergognò d’essere francese. Ma in quei giorni fu Hugo a scrivere le parole che avrebbero per sempre accompagnato la memoria dell’imperatore fellone e traditore: Napoléon le Petit.

Fu costretto all’esilio, scappò in Belgio, da qui si rifugiò sulle isole nella Manica, Guernesey e Jersey. Il suo romanticismo se ne irrobustì, e trovò nella pittura e nel disegno un’ulteriore forma d’espressione. Non ebbe dubbi nella coerenza e durezza di questa lunga opposizione: “Quelli che vivono sono quelli che lottano”.

Nella sua produzione si trovano pagine d’amore d’indimenticabile bellezza, colme di rispetto ed ammirazione per la donna. Ha, grida la critica, ma come? lui che fu satiro e puttaniere?

Sposò Adèle, dalla quale ebbe quattro figli. La amò, ma si sentì umiliato dalla relazione di lei con Sainte-Beuve. In piena crisi sentimentale incontra Juliette Gauvain, che si fa chiamare Drouet. Attrice che seppe amarlo in modo esclusivo ed intenso, per tutta la vita. Lui le scrive. “Le 26 février 1802, je suis né à la vie, le 17 février 1833, je suis né au bonheur dans tes bras. La première fois ce n’est que la vie, la seconde c’est l’amour. Aimer c’est plus que vivre“. La corrispondenza fra loro non s’interruppe mai, anche se, ad un certo punto, Hugo fu preso da una frenesia sessuale che lo portò ad avere un numero imprecisato di partners, dalle nobili alle cameriere, fino alle professioniste.

Divenuto un pari di Francia, accolto all’Accademia, e, oramai famoso e colmo d’onori, viene trovato in una mansarda fra le braccia di Léonie Biard, sposata, quindi adultera. Una scena da romanzetto rosa. Lei viene arrestata, lui risparmiato dell’arresto grazie alla sua posizione sociale. Sono momenti di terrore. Pensa a Léonie in carcere, pensa all’ira di Juliette. Ma gli capita di trovare un’insolita alleata in sua moglie, Adèle. Questa non aveva mai sopportato la relazione del marito con l’attrice, quindi briga ed intriga per Léonie, riuscendo ad ottenerne la liberazione. Intanto, per miracolo, Juliette è l’unica, in Francia, a non sapere nulla di quel che accade, anche perché Victor si premura di tenerla lontana da tutti i giornali. Quando deve fuggire, verso l’esilio, Juliette lo segue, cosa che vuol fare anche Léonie, ma lui si rivolge ad Adèle affinché la convinca a desistere. Poco prima di morire, parlando al nipote, gli dice: “L’amour ? cherche l’amour ? Donne de la joie et prends-en en aimant tant que tu pourras“.

Amò in modo sfrenato, fino alla fine, con una sessualità passionale e vitale che faceva da contrappeso ad una vita colma di dolori e disastri: i diciannove anni di esilio, la pazzia del fratello e della figlia, la morte degli altri tre figli

A 83 anni si avvicina il momento della fine. Lui lo sa e scrive il suo testamento: “Lascio cinquantamila franchi ai poveri. Rifiuto l’orazione funebre di tutte le Chiese, domando una preghiera a tutte le anime. Credo in Dio”. Le sue ultime parole: “Il est temps que je désemplisse le monde“.

I suoi funerali furono epici. Il carro che lo portò al Pantheon, passando per l’Arco di trionfo addobbato in suo onore, fu seguito da milioni di persone che si ritrovavano, al tempo stesso, in lutto ed in festa. Una folla sterminata che invocava il suo nome e recitava i suoi versi, leggeva le sue pagine. Una cosa incredibile, immensa, come seppe essere Hugo.

Quest’anno Parigi gli dedica molti appuntamenti, mostre, convegni. Chi avesse la fortuna di capitarci non li perda. Ma, soprattutto, si riprendano le sue opere, le si legga senza il disturbo di una critica che ne ha avuto paura.

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