Idee e memoria

La memoria ed il Gulag

Arriva una notizia che lascia svuotati. Si resta fermi a pensarci, non si sa neanche se sia bene parlarne. Così, contravvenendo alle regole della buona creanza, ed anche a quelle dello scrivere, la metterò in fondo, la notizia.

C’è sempre qualcuno pronto a fare il saggio, a dar lezioni d’equilibrio, a ricordare che la memoria storica deve essere condivisa, che vorrebbe significare l’inutilità, o la dannosità dei ricordi diretti a trovar colpe, a chiarire responsabilità, a descrivere i fatti non tralasciando i crimini. Così, alla fine, a seguir queste sciacquette della storiografia intrallazzata, si rimane senza storia, senza cognizione di quel che è stato, quindi di quel che è.

E’ appena trascorsa la giornata della memoria, dedicata al 27 gennaio 1945, quando si dischiusero i cancelli di Auschwitz. Non solo è bene ricordare, ma è bene anche continuare ad interrogarsi, a chiedersi come è stato possibile, a scandagliare l’animo umano per trovare gli angoli ove s’annida il seme di quell’orrore. Che fu umano, non certo diabolico. Ed è bene anche interrogare coloro i quali, per molti anni, si sono considerati eredi dell’Italia fascista, che sono non solo viventi, ma governanti, dei quali abbiamo ascoltato ed apprezzato le parole ed i gesti di ripudio dell’infamia razzista, ma che, appunto, non hanno da inquietarsi se, di tanto intanto, qualcuno voglia accertarsi che quella loro riflessione autocritica non vacilli, non si attenui, non scolorisca.

Ora, sia chiaro, mettere gli orrori sul bilancino non si può. L’assoluto rimane tale. I lager sovietici durarono più a lungo, sacrificarono più vite, ma non per questo superano l’orrore nazista. Sono orrori assoluti. La memoria no, però, quella incespica, s’ubriaca, svaluta, occulta. Ai lager sovietici (Gulag sta per Glavnoe Upravlenie Lagerej, cioè amministrazione generale dei campi, i “campi” sono i lager) si dedica una memoria distratta, camomillata. Non si trovano nei nostri incubi, non sono l’icona del male. Perché? Un primo perché, banale, ma non troppo, sta nel fatto che nessuno ha mai “liberato” quei lager. Non sono entrati militari ad immergersi fra i fantasmi, non sono stati girati film, scattate fotografie. Le immagini che abbiamo sono rubate, scattate di nascosto, quindi di pessima qualità, oppure, incredibile a dirsi, scattate dai burocrati della morte, per magnificare le condizioni in cui vivevano i “lavoratori d’assalto”.

Un perché più profondo, però, recita così: noi non abbiamo problemi a riconoscere nel nazismo i tratti della malvagità da condannare senza nessuna possibile attenuante, facciamo, invece, molta più fatica con il comunismo. I lager nazisti erano il nazismo, perché il nazismo era il male. I lager comunisti non erano il comunismo, perché il comunismo non fu (almeno solo) male. I primi erano nella natura dell’idea, i secondi figli di una sua corruzione, di un errore. Così ci raccontiamo, e per questo la nostra memoria si corrompe, perché ci piace credere che il nichilismo e l’antisemitismo siano stati debellati con la svastica, mentre sentiamo il comunismo come più vicino alle nostre radici culturali, ne conosciamo le propaggini politiche, e non ci piace dire che quel che è stato è stato possibile. Ci prendiamo in giro, perché tutte e due le cose sono il nostro passato, e con tutte e due si devono fare i conti.

Il Gulag fu voluto da Lenin. Stalin ne fu solo il prosecutore. I campi di lavoro esistevano anche sotto gli zar, ma nel 1906 vi erano chiuse 6.000 persone, arrivate a 28.600 nel 1916, alla vigilia della rivoluzione. Ma si erano ammolliti, le riforme penitenziarie provenienti da ovest avevano lasciato il segno: Stalin scappò diverse volte, giurando a se stesso che non avrebbe commesso lo stesso errore, non avrebbe consentito al detenuto una vita umana; Trockij, nel 1906, se ne stava nella fortezza di Pietro e Paolo, coperto, ben vestito, pettinato e nutrito, leggeva, scriveva. Ma nel 1921 i campi erano già 84 e contenevano migliaia di persone. Nel 1930 gli internati erano 179.000, nel 1953 2.468.524. Gente mandata a scavare canali e gallerie a mani nude, o con attrezzi costruiti da loro stessi. Chi rendeva veniva nutrito, chi non rispettava i ritmi di produzione non lo meritava, e moriva nel gelo, nella fame, nel suo non essere più un uomo.

Questa era stata la grande intuizione di Stalin: i campi non servono per scontare la pena, ma per alimentare la produzione, per essere fattore di ricchezza. Non importa che si sia colpevoli od innocenti, serve solo essere utili e lavorare. Per questo il Gulag non fu un universo a parte, ma la quintessenza del comunismo sovietico, la sua massima espressione.

Non c’erano le camere a gas. Non c’erano. A che sarebbero servite? Ai milioni di gettati nella schiavitù e nella morte del Gulag si devono sommare i milioni di deportati: donne, bambini, vecchi, strappati alla loro terra, nel timore che la loro etnia potesse essere ostacolo allo sviluppo del comunismo, e gettati nelle lande deserte e gelate della Siberia, senza cibo, senza niente. A che sarebbe servito gasarli? E perché poi bruciarli?

Sapete chi smantellò il Gulag? Fu Gorbaciov, nipote di prigionieri, nel 1987. Ieri, appena ieri. Il Gulag nacque con Lenin e con l’Unione Sovietica, e chiuse con Gorbaciov, e con l’Unione Sovietica. Che effetto avrebbe fatto vedere un Peppone di destra, un Peppone fascista, andare, in un film, a rendere omaggio alla Germania con i lager? Orrore, vero? Ma il Peppone comunista andava in Urss a fare la stessa cosa, e noi si rideva.

Non lo sapevamo, non era chiaro? Le gerarchie comuniste lo sapevano benissimo, e, comunque, almeno dal 1962 lo sapevano tutti quelli che avevano letto Un giornata di Ivan Denisovič. Ma si disse che l’autore, Solzenicyn, era un pazzo, un nazionalista, un alcolizzato. Non lo si mise sul piano di un Primo Levi, ma si assecondò l’altra caratteristica del comunismo sovietico: si considerarono pazzi i suoi avversari. Successe questo, sembra incredibile. La verità è che facciamo finta di non sapere, ancora oggi. E nessuno va a chiederne conto a quanti, anch’essi viventi, esaltarono il mondo ove era possibile la schiavitù, se ne dicevano seguaci, vi andavano in vacanza ed in pellegrinaggio, ne difendevano la corsa all’armamento nucleare, ne accettavano i quattrini. Ancora oggi si storce la bocca, magari si dicono cose a modino, del tipo che la storia va lasciata agli storici e non strumentalizzata a fini politici. Come se fossero politici i fini di chi ricorda i non uomini dei lager, o le zecche del Gulag.

Ed ecco la notizia: Alexander Solzenicyn e Robert Conquest, con altri storici, hanno raccolto la documentazione sul Gulag, producendo sette volumi, che cadono come ferri roventi nelle carni del nostro mondo, ma quei volumi non potranno essere letti da tutti, non saranno tradotti, perché non c’è un editore disposto a farlo. Sarebbe troppo costoso. Era questa, la notizia.

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