Quelli mafiosi sono labirinti. Capisco quelli che ci si perdono e capisco anche quelli che sperano di avere versioni chiare e semplici. Il modo più sicuro per perdersi, in quei labirinti, è supporre che la realtà sia ingannevole e il racconto misterico una buona traccia. Ad esempio: si è discusso, per mesi, con tanto di tesi giudiziarie e processi aperti, della trattativa fra la mafia e Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, destinata a dare soddisfazione a un “papello”, nel quale si chiedeva la fine del carcere duro, poi si scopre, dalla viva voce del ministro della giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, che quella misura, il 41 bis, fu disapplicata dal governo Ciampi, nel 1993. Conso ha aggiunto: lo facemmo per evitare altre stragi. Quel che qui sostenevo, in via logica, è quindi vero: semmai, furono altri. Ora leggo il secondo libro di Antonio Ingroia, il quale afferma: “E’ innegabile che la struttura gerarchico-militare di Cosa Nostra abbia subito negli ultimi anni colpi durissimi”. Giusto, ma sono gli anni dei governi Berlusconi. Che, detto per inciso, secondo me non c’entrano nulla, ma ugualmente non c’entra alcun presunto asservimento alla mafia.
Ingroia sostiene che se fosse giunto a conoscenza di una trattativa fra Stato e mafia, Paolo Borsellino si sarebbe opposto. Certo. Ma se fu ammazzato perché la trattativa andasse in porto se ne dovrebbero raccogliere dopo, e non prima, i frutti. Il che mi conferma nell’opinione che Borsellino morì per la stessa ragione di Giovanni Falcone: l’inchiesta mafia appalti. Furono traditi da chi li circondava. Ma i labirinti mafiosi si fanno complicati, e nel suo “Nel labirinto degli dei” Ingroia non parla di quell’inchiesta, di quel lavoro investigativo cui Borsellino teneva tanto.
Ma che vuoi? mi si dirà, Ingroia è un pubblico ministero in piena attività, non può mica scrivere di quel che fa. Vero, giusto. Ma è lui ad avere voluto pubblicare, piuttosto precoce, un libro di memorie, mettendo in copertina, quale segno di riservatezza, la propria foto con la toga al braccio e un bel fascicolo ove il montaggio fotografico ha ben stampigliato “Proc. Riina”. E’ lui che usa la toga per per promuovere l’immagine. Di sé medesimo. Badate, la mia non è una fisima estetica, che pure avrebbe un fondamento. C’è molto di più.
Dedica il settimo capitolo a Carmelo Canale, carabiniere e braccio destro di Paolo Borsellino. Ne ho scritto ripetutamente: accusato di collusione con la mafia è stato assolto, in via definitiva, perché il fatto non sussiste. Ingroia lo ricorda, ma aggiunge che la verità processuale non soddisfa. Lui aveva percepito un’increspatura, nel rapporto con Borsellino, sapeva che il magistrato non credeva a Canale, circa l’uccisione di un altro carabiniere e alcuni che falsamente se ne accusarono. Secondo Ingroia, Borsellino diceva: “Carmelo, quando me la racconti la verità?”. Peccato, però, che Ingroia fu testimone al processo e queste cose non le disse al tribunale. Le dice ai giornalisti e le scrive in un libro. Il processo a Canale verteva sul suo essere un traditore, era quella la sede in cui quei ricordi avrebbero dovuto essere raccontati. Invece no, Ingroia disse che Borsellino si fidava ciecamente di Canale. E peccato, inoltre, che Borsellino non dava del tu a Canale. Strano che cada in un simile errore chi scrive, in una pagina sì e nell’altra pure, di avere avuto tanta confidenza con quelle persone. Forse Ingroia vorrà dire che se ne è ricordato dopo il processo, ma temo che a un comune mortale questo sarebbe rimproverato severamente.
Io mi limito ad un’osservazione: oggi Ingroia è pubblico ministero al processo contro Mario Mori, che lavorò con Falcone e Borsellino, al rapporto mafia appalti, e Canale s’appresta ad essere testimone. Non gli pare singolare questa sovrapposizione fra il lavoro d’aula e quello di memorialista?
Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo”, colui che arrestò Totò Riina, disse: “in dibattimento non vedevo il pm Ingroia, ma Riina”. Ne chiesi ragione a Ingroia, in un pubblico dibattito, e lui disse di esserne molto amareggiato, ma che non avrebbe denunciato De Caprio. Gli risposi che capivo l’amarezza, ma non credevo vi fosse alcuna alternativa al difendersi in sede penale. Spero che lo abbia fatto.
Nel labirinto mafioso la memoria subisce strane metamorfosi. Parlando del suicidio del tenente Antonino Lombardo, cognato di Canale, Ingroia lo ricorda come un illuso, poi disperato per essere stato abbandonato dai superiori. Non ricorda, invece, che Leoluca Orlando Cascio lo attaccò in televisione, dandogli del mafioso, che i vertici dell’Arma chiamarono in diretta ma non fu dato loro diritto di replica. Strane amnesie. Forse saggezza, per evitare d’essere coinvolto in questioni politiche. Ma, allora, perché Marcello Dell’Utri e Berlusconi compaiono ripetutamente, con una vera sceneggiatura cinematografica delle loro espressioni e intenzioni?
La faziosità politica in salsa mafiologica mi dà la nausea, da qualsiasi parte sia esibita. Qualcuno, per giunta, si mette anche in posa.