Idee e memoria

Le colpe e le debolezze dei padri

Un tempo erano le colpe dei padri a ricadere sui figli, ora che i padri sono renitenti alla funzione, trasformandosi in coccolosi nonni, sono le loro debolezze a rischiare di finire sul conto della progenie. Due signori che si presentarono sulla scena tuonando contro la politica clientelare e familistica, che non esitarono a indicare nell’intero mondo degli eletti un popolo di mantenuti, se non direttamente di ladri a profitto personale e della propria famiglia, non hanno resistito alla tentazione di sistemare in politica i propri figli. Così li hanno condannati, giacché uno sarà, per sempre, il figlio di Bossi e l’altro quello di Di Pietro.

E’ un peccato veniale, questo. E non sono neanche peccatori solitari. Il cielo mi guardi dal fare il moralista con i moralisti, dacché ritengo che l’intera categoria sia viziata da insanabile mancanza di etica. Quei padri, però, dovrebbero interrogarsi circa i guasti che mettono sulle spalle dei figli, come dell’intera collettività. A me non interessa punto la carriera scolastica del figlio di Bossi. Conosco gente eccellente, che ha fatto i soldi, avendo la terza elementare. Sono favorevole all’abolizione del valore legale del titolo di studio, in modo che si risparmi lo strazio a chi manca di vocazione. Però, ecco, se il ragazzo sbotta d’avercela con il tricolore perché “identifica sentimenti di 50 anni fa”, mi preoccupo. Non perché sia ignorante, che son problemi suoi, non perché indica date a capocchia e gli sfugge il legame fra quella bandiera e la cispadania (che d’è?), ma perché, evidentemente, più che a quella del padre questo ragazzo è cresciuto alla scuola di Mario Borghezio. Non priva di un suo ruspante fascino. Se un ragazzo che nasce al nord, però, si fa vanto di non essere mai andato a sud di Roma, se afferma di non capire il napoletano di Apicella, che è come il siciliano di Camilleri, vale a dire un ibrido informe e orecchiabile anche per gli svedesi, il capo della Lega ne ha più che in abbondanza per domandarsi ove mai, per caso, abbia provocato qualche guasto. Le parole sono pietre, e qualche volta ti ritornano in testa.

Non è una questione familiare, nella quale non meriterebbe e non avremmo diritto ad entrare, ma si estende a condotta collettiva. Un giovane ricercatore guadagna tre lire, rischia di far la gavetta per decenni, non ha neanche la sicurezza di potere fare vera ricerca, spesso si rassegna ad andare via. La meritocrazia è una gran bella cosa, ma da noi capita che più si è bravi più si ha motivo di far le valige. A quei ragazzi mostriamo come si seleziona la classe politica: amicizie, parentele, premio alla fedeltà e ostacoli alla qualità. Va così anche nelle università, come nella gran parte del mondo che teniamo al riparo dal mercato. Grazie a questo procedere abbiamo cresciuto una classe dirigente d’incapaci, gente con le idee confuse, retori da strapazzo, urlatori del niente. Gente che non becca un congiuntivo manco a pagarla, e che sarebbe niente se almeno, sia pur parlando peggio di come mangia, fosse in grado di dire, oltre che emettere rumori. Che cosa volete produca, un tale spettacolo?

Dopo di che, l’Italia è fatta di tante eccellenze, nel mondo produttivo come nella cultura, nelle attività liberali come in politica. Siamo circondati da persone che si fanno in quattro, pur di adempiere al proprio dovere, abbiamo una sanità costosissima e miserabile, ma troviamo medici preparati che si muovono in padiglioni fatiscenti, abbiamo insegnanti che lavorano con passione, ma che insegnano in aule che fanno compassione. Il crimine che commettiamo, ogni giorno, e di trattare tutti allo stesso modo, con ignavia e superficialità, brandendo un egualitarismo che si traduce in complicità con l’ignoranza e la nullafacenza. Togliete all’Italia l’intollerabile tappo burocratico clientelare, liberate le forze vitali, sganciate la ricchezza dal dover finanziare la dilapidazione, usate la meritocrazia e cacciate i raccomandati, ed avrete un Paese capace d’esplodere e correre per il mondo, come fece e come può tornare a fare.

Ma non è questo che preparano i padri, né quelli di famiglia né quelli politici. I primi vanno dai professori per difendere i propri figli, anziché punirli perché somari, anziché far valere la propria autorità per suscitare in loro l’amor proprio. Li accudiscono come chiocce, allevando dei polli. I secondi li candidano e sistemano, oppure li illudono in massa, nel mentre alimentano il debito pubblico che li spennerà. Tutto questo non è colore, non è materia per articoli sul costume, questo è il tumore che sta divorando la carne viva del Paese. Forse si dovrebbe guardarlo con meno indulgenza.

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