C’è qualcuno che sta cercando di soffiare il mestiere a Beppe Grillo, producendosi nel comico esercizio di spiegargli in cosa consiste la democrazia. Queste lezioncine sono oziose e inutili, non perché il supposto discente non sia in grado di apprezzarle, ma perché s’è formato a una diversa e affermata scuola, quella del partito proprietario. Tale dottrina non consiste, banalmente, nel dire che il simbolo e mio e decido io, ma s’è trasformata in un sottoprodotto del leaderismo in tempi di dominanza televisiva: i voti arrivano perché ci sono io, quindi i candidati non contano, gli eletti sono irrilevanti, basta che le loro persone non disturbino l’armonia comunicativa fra me e il popolo. Presero in giro Silvio Berlusconi, quando faceva i casting, ma è una formula con la quale è andato avanti diciotto anni. Nel tempo, semmai, è sceso di livello il casting.
I partiti nei quali il capo era anche il principale, quando non l’unico decisore non sono un prodotto nuovo, e neanche esclusivamente italiano. Ci sono sempre stati, ovunque. Per restare a casa nostra: nel Pci di Palmiro Togliatti il segretario, non a caso, era detto “il migliore”; ma anche nella più piccola famiglia dove sono cresciuto, quella repubblicana, il ruolo di Ugo La Malfa non lasciava grandi spazi agli altri. Diversa la Dc, dove anche sotto personalità fortissime, come Amintore Fanfani, rimase una costellazione di forze diverse. Ma sebbene il capo fosse il capo non per questo mancava il dibattito, talora accesissimo: Giorgio Amendola e Pietro Ingrao si scucuzzarono per una vita. I voti arrivavano al Partito (maiuscolo, perché erano tutti terzinternazionalisti, il contenitore del tutto, la guida per tutti). Le diverse personalità servivano, perché coprivano aspetti e domande diverse della società. Quelli di oggi sono fenomeni diversi.
Quanti mettono il loro nome nel simbolo non sono i capi di un partito, ma i proprietari di un partito il cui contenuto è nel nome. Grillo ha ragione, dal suo punto di vista, quando impedisce ai suoi di andare ai dibattiti, perché la loro pochezza, o la loro grandezza (ancora non s’è vista), distorcerebbe il messaggio: votiamo Grillo per mandarli tutti in quel posto. Che contenuto ci vuoi mettere? Ma non è diverso Antonio Di Pietro, il cui giustizialismo fascistoide riuscì anche a essere deglutito dalla sinistra. Ora è passato di moda, e per quanto Grillo somigli al capo di una setta, per quanto sia antisemita, per quante possa dirne, no, non riuscirò a rimpiangerlo.
Quando Berlusconi dice: mando a casa il 90% degli eletti (oltre a mentire) che altro afferma, se non che gli serve una squadra coerente con il nuovo messaggio? Possono pure essere manichini, che hanno un pregio inarrivabile: non aprono bocca.
Viva il Pd, quindi, che fa le primarie? No, per niente, perché quella non è pratica democratica, ma fuga dalla politica. Uguale e contraria. Se la sinistra candida Piero Ichino afferma una tesi, se candida Susanna Camusso quella opposta, se li candida entrambe si riserva di mediare, ma se li sottopone alle primarie vuol dire che ha bisogno di candidati la cui unica caratteristica sarà quella d’essere stati scelti dalle primarie. Demagogia. E siccome, s’è visto, alle primarie le cordate contano, sarà demagogia spartita. Il messaggio finale nasconde il contenuto, ammesso che ci sia, dentro la forma del contenitore. Marketing? No, cattiva politica.
Dicono: le primarie si fanno in Usa, grande democrazia. Vero, ma non fate tutti come Nando Moriconi: perché il paragone regga è necessario che gli elettori votino il presidente o il senatore, direttamente. Perché funzioni serve una Repubblica presidenziale e i collegi uninominali. Altrimenti si chiama: presa in giro.
Il casting, il partito proprietario, le primarie senza elezione diretta, sono depauperamento politico. Frutti di un sistema morto, ma non sepolto. Possono produrre vittorie elettorali, non governo.