Idee e memoria

L’Italia che affonda in Sicilia

Trattare di cose siciliane espone ad un doppio rischio: non capire quello di cui si scrive e non essere capiti da chi legge. I protagonisti della vita collettiva, da quelle parti, oscillano fra il navigare verso l’autonomia politica e il veleggiare verso le patrie galere, in una contraddizione che s’accompagna ai mille sussurri, componenti il chiassoso chiacchiericcio che s’estende a coprire la terra del tacere. Sembra complicatissimo, invece non è privo di una sua arabesca linearità.

C’è ricascato anche il presidente del Consiglio, che, per la seconda volta, se l’è presa con chi produce letteratura, cinema e televisione, contribuendo ad una fama che alle organizzazioni criminali non manca. Per le sue parole, buttate lì, lo ringrazieranno (in cuor loro) quanti con più veemenza le rigettano, ancora una volta destinatari d’un regalo non meritato: la patente di uomini liberi, consapevoli e combattenti contro il male. Laddove, invece, il guaio vero sta nel luogo comune, nel credere di potere leggere con semplicità quel che è complesso, nel voler far complesso quel che è semplice, compartecipando, ciascuno con il proprio partito preso, dello scorrere inutile del tempo. Approfitto d’essere casualmente bilingue, per tornare su due fatti politici, destinati a non esaurirsi.

Il presidente della regione siciliana, Raffaele Lombardo, è indagato per avere favorito la mafia. Giunse in quel posto perché il suo predecessore, Salvatore Cuffaro, subiva un procedimento penale, sempre per aver favorito la mafia. E vabbe’, vorrà dire che ai siciliani piacciono i mafiosi! Ma il conto non torna, perché se così fosse l’accusato non si dimetterebbe, semmai resisterebbe anche in ceppi. E non tornano, i conti, anche perché Lombardo, avendo ben presente il problema, ha portato con sé, in giunta, gli uomini antimafia della procura. Si tratta di quegli stessi che oggi, con singolare approccio estetico, dicono: “lasciateci essere garantisti”. E ci mancherebbe, lo siano pure, magari anche nell’esercizio delle precedenti funzioni. Continuano a non tornare, quei maledetti conti, perché oltre agli uomini della procura, verso Lombardo si muovono anche quelli del partito democratico, il che non è affatto garanzia di antimafiosità, ma segnala l’equivoco, o un improbabile venir meno del gioco delle parti. La sinistra siciliana, oltre tutto, ha già dei problemi, come a Enna, dove una parte di loro ostacolano la candidatura a sindaco di un senatore, accusato d’avere avuto rapporti con la mafia (e Peppino Caldarola ha giustamente osservato: se non è vero piantatela, ma se è vero non ve lo potete tenere neanche come parlamentare).

Le cose stanno così: finché resiste quella barocca trovata giurisprudenziale, che risponde al concetto di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”, in Sicilia possono arrestarci tutti, il che significa lasciare alle procure l’insindacabile potere di stabilire chi può galleggiare e chi affondare. Ed ho usato il plurale, “procure”, non per sottolineare la diversa competenza territoriale, ma proprio il diverso indirizzo politico: fai l’accordo con una? ti silura l’altra. Non solo, ma finché resiste quella stranezza giuridica, ogni pubblico amministratore può ben essere condannato, perché è sufficiente avere governato, aver preso voti, non dovendosi dimostrare, in giudizio, alcun atto concreto e circoscritto, compiuto con l’intento di favorire i criminali.

E, del resto, guardate l’interminabile processo a Marcello Dell’Utri. Indagini iniziate nel 1994, la prima sentenza, di condanna, arrivata dieci anni dopo, nel 2004, il processo d’appello iniziato quattro anni fa, nel 2006. Con l’imputato che dice cose succose, con l’aria di dirle banali: avrei voluto fare politica, invece m’hanno costretto a fare il senatore, se mi assolvono non mi ricandido. L’inversione del mondo, perché s’è invertito il diritto.

Il rischio di non capire me lo porto dietro dalla nascita, ma quello di non essere capito, sono sicuro, a questo punto è forte. Il nostro Paese è culla del diritto, ma s’è diffusa la pedofilia, al punto che è divenuto difficile sostenere il maggior valore delle regole, rispetto alla pretesa sostanza. Quelle appena accennate non sono storie di povere vittime, di mischineddi, ma il racconto della legge che cede il passo alla coltellata, non escludendosi che il trafitto meriti l’ingiuria. La distinzione fra colpevoli e innocenti viene affidata alla metafisica, mentre le aule di giustizia divengono mondo sensibile allo spostarsi delle forze.

Antonio Calabrò, che fu direttore del giornale L’Ora, baluardo editoriale della sinistra d’un tempo (quando esisteva), ha descritto, in Cuore di cactus (Sellerio), lo stato d’animo di chi se ne va dalla Sicilia e non intende tornarci, perché non è terra normale, non è luogo per normali. I “buoni” sembrano essere i morti, e neanche tutti. Non è una fuga, ma una presa di distanza. Ed è questo il punto: la fuga sarebbe disonorevole, ma la presa di distanza è impossibile. Non ci riesce Calabrò, che pagina dopo pagina ci porta tutti in Sicilia, ma non può riuscirci l’Italia. La Sicilia di cui ho parlato non è una “metafora” sciasciana, ma un’anticipazione, una concentrazione, una mostruosa amplificazione dei nostri mali collettivi. O andiamo in Sicilia, a riprenderci la legge e i diritti, o non li raccatteremo a Milano (?!). Le sorti non possono separarsi, tutt’al più contagiarsi, scambiandosi i vizi territoriali e giudiziari. Sono passati 150 anni, ma il problema è ancora coincidente con la soluzione: lo Stato.

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