La tesi di Giovanni Pellegrino è che la storia dell’Italia repubblicana è stata attraversata da una guerra civile che ancora non si è conclusa. E che non è concludibile, aggiungo io, se non ripartendo dal cumulo di versioni di comodo e di bugie che si sono accumulate. Il libro che ha scritto (“Guerra civile”, Bur) andrebbe letto e meditato da tutti, perché rappresenta una chiave interpretativa convincente, comunque utile, per capire la realtà di oggi.
Dagli anni immediatamente successivi alla liberazione fino al sorgere del terrorismo politico, dalla rottura dell’unità antifascista all’uso criminale dell’arma giudiziaria, dai guasti di quella guerra civile non tiriamo fuori le gambe se non disarmando la corruzione della memoria.
Il ragionamento di Pellegrino m’interessa anche perché già scrissi de “L’Italia come bugia”, dove osservavo una realtà in cui le corazzate dei mezzi di comunicazione si muovevano tutte in una stessa direzione, tutte pronte a bere il brodino delle veline, ad ossequiare gli stessi poteri, in uno sterminio di dignità ed intelligenza che non risparmiava i più blasonati commentatori. Pellegrino avverte che quel fenomeno ha radici profonde, antiche, solide, e c’è ragione di credere che abbia ragione. Non è un caso, del resto, che quelle medesime corazzate non abbiano dedicato al libro la metà dello spazio che merita.
Questo, però, pone un problema politico: come fa un Paese ad uscire dai veleni della guerra civile, come fa a ripristinare la memoria e riassegnare un compito alla politica, se manca di classe dirigente?
Nel centro sinistra la classe dirigente è fisicamente incarnata dai protagonisti di quella guerra civile, è materialmente coincidente con gli artefici dell’ultima grande bugia e distorsione, che Pellegrino coraggiosamente e lucidamente individua nel biennio terrificante del manipulitismo giustizialista. Nel centro destra la forza politica trainante è il frutto, per reazione, di quell’esito violento che portò alla fine di un mondo politico che riscuoteva la maggioranza dei consensi elettorali. Attorno a questi relitti della guerra civile, che ne sono, al tempo stesso, fossili e prosecutori, c’è il vuoto di un mondo economico che ha smesso d’essere imprenditore e spera di trattare la resa dopo aver profittato dello sfascio. Del mondo della cultura poi non parliamo, che la storica viltà degli intellettuali italiani ha raggiunto, negli ultimi quindici anni, vette inespugnabili. Ed allora?
Il declino del Paese sta nel declino della sua classe dirigente e nell’incapacità di far funzionare i meccanismi che ne selezionino una nuova. Pellegrino è un inguaribile ottimista, come noi, del resto, perché ancora crede che gridarlo serva a qualche cosa.