Idee e memoria

Liu Xiaobo

Il vuoto si fa enorme, difficile da colmare. Non tanto sulla sedia che, a Oslo, in occasione della cerimonia per la consegna dei premi Nobel, avrebbe dovuto accogliere il cinese Liu Xiaobo, quanto nella politica estera e commerciale dei Paesi democratici. Il problema è questo: come ci si comporta se i diritti umani sono negati non da un nemico, ma da un importante partner commerciale e finanziario?

Quando il premio Nobel non poté essere ritirato da Boris Pasternak, o da Andrej Sacharov, le cose si presentavano in modo chiaro: quegli uomini non potevano sfuggire al giogo della dittatura. Noi eravamo dalla parte del bene e della libertà, i comunisti sovietici da quella del male e del dispotismo. Non era un’analisi rozza e superficiale, ma vera e precisa. Anche a quei tempi si facevano affari con l’Unione Sovietica: dai commerci di materie prime agli stabilimenti Fiat di Togliattigrad, ma questo non intaccava il diverso ruolo e collocazione internazionale, cristallizzati dalla guerra fredda. Con la Cina di oggi la questione è decisamente meno lineare.

Con le sue merci ha abbassato i prezzi di molti nostri consumi. Con il suo mercato interno alimenta oggi la ripresa economica. Con le sue riserve finanziarie, accumulate anche mediante l’assenza di libertà, acquista i nostri debiti pubblici. Non si tratta di sostenere che i cinesi sono troppo grossi e importanti per andare a litigarci (non si dimentichi che sono anche una potenza nucleare e siedono al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), ma che chiunque ragioni sa che un futuro migliore passa dall’integrazione e non dalla guerra. Non solo quella affidata ai militari, ma anche quella nel settore dei commerci. Anzi, ciascun Paese dell’Occidente libero e democratico fa a gara con gli altri per trovarsi uno spazio in quello che fu e ancora è un grande impero.

Queste sono cose che solo uno sciocco può pensare di cancellare, ma, al tempo stesso, non per quelle si deve cancellare Xiaobo e i tanti uomini liberi che in Cina subiscono l’oltraggio alla loro dignità. Che è un oltraggio alla nostra, a quella dell’intera umanità. Le autorità cinesi, del resto, quando non sono occupate a reagire a quelle che considerano aggressioni indebite, fanno osservare che la Cina era, fino a qualche lustro fa, una vasta landa di miseria e fame, la cui popolazione era decimata dalle carestie e la natalità bloccata per ragioni di sopravvivenza. Nessuna osa incolparne il maoismo regressivo, ma è evidente che le condizioni attuali sono assai diverse. Migliori. Lo sviluppo economico non s’è accompagnato a quello politico, il capitalismo riesce a convivere, per ora, con l’autocrazia del partito comunista cinese. Ma la qualità dell’istruzione cresce vertiginosamente, molta parte della nuova classe dirigente s’è formata all’estero, i ricchi sono numerosi. Sappiamo che queste condizioni escludono la stagnazione civile. Il desiderio di consumo e libertà romperà gli argini. Sappiamo anche che, nella sua storia plurimillenaria, la Cina non è estranea a grandi balzi in avanti e drammatiche battute d’arresto.

Si devono tradurre sentimenti e consapevolezze in politica estera. Non rinunciare alle aperture, non mollare la via dello scambio culturale e tecnologico, ma neanche voltare le spalle a quella sedia vuota. Fra le cose che noi possiamo dare c’è la concezione della libertà come bene universale e indivisibile. Un principio forte, che, se sostenuto con coerenza e senza isteria, farà breccia. L’ha già fatta. Come altre ne aprimmo, noi italiani, nella storia e nella società cinesi.

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