Sarà pur brutto da dirsi, ma dei 150 anni dall’unità d’Italia non importa niente a nessuno, salvo a quanti cercano personale visibilità denunciando l’assenza di calendarizzato amor patrio. I progetti preparati dal governo Prodi, avallati dalla solita commissione di presunti padri della Patria, in realtà accomodanti e vetusti passacarte, facevano ridere i polli. Utili, più che altro, a celebrare coriacei caratteri nazionali: la furbizia profittatrice e la cedevolezza clientelare. Quelli rivisti ed aggiornati non sono affatto entusiasmanti, e l’idea di ricordare l’unificazione con un centro per lo studio delle catastrofi naturali non si sa se sia perfidamente ironica o freudianamente icastica.
La ricorrenza, in realtà, mette in luce la debolezza culturale della nostra ricerca storica e la poca indipendenza di giudizio dei nostri intellettuali. La media è povera di spessore, come di coraggio. Si compiacciono di piacersi, si profumano di cattedra, ma non osano allontanarsi dal conformismo. Il modo migliore per celebrare una storia consiste nel raccontarla, dai diversi punti di vista interpretativi, nel farla conoscere. La nostra storia nazionale, invece, è un cumulo di bugie retoriche e di fumettistica falsificazione, ripetute a pappagallo. Vale per l’unità, che fu anche guerra d’occupazione, per il fascismo, per la resistenza, per la guerra civile e per la Repubblica. E vale anche per gli anni a noi più vicini, da quelli in cui la guerra fredda condizionò la nostra vita politica a quelli del biennio giustizialista 1992-1994. In tutti questi passaggi, complice un’intellettualità moscia ed intruppata, si è preferito superare mentendo piuttosto che approfondire ricercando, ci si è buttati il passato alle spalle, pur di non farci i conti nel presente. Ci furono eccezioni, naturalmente. Ne cito una: Renzo De Felice. Non a caso i “colleghi”, luogocomunisti de sinistra o cacasotto senza idee, lo emarginarono e ostacolarono. Oggi fa un miglior lavoro Giampaolo Pansa di tanti professori che insegnano senza avere vocazione allo studio.
Ne è venuta fuori una storia nazionale da antologia scolastica, zeppa di luoghi comuni e di fanfare mal squillate. S’è fatto un frullato misto di miti e santini, con il risultato che anziché il “risorgimento senza eroi”, immaginato da Piero Godetti, si propina ai ragazzi una galleria di eroi senza risorgimento, senza conflitto, senza il senso di uno scontro durissimo, che costò sangue e dolore. E gli scolari che la studiano, questa roba, sono già avvantaggiati rispetto alla quasi totalità della presunta classe dirigente, che s’orizzonta fra le date con ancor maggiore impaccio che fra i concetti.
E non basta, perché se t’azzardi a dir qualche cosa di diverso, se provi a sostenere che la democrazia italiana è il frutto di Yalta, non della guerra partigiana, ti saltano al collo per vendicare l’offesa ai sacri pilastri della nostra storia. Che certuni difendono con tenacia pari all’ignoranza circa i medesimi. La nostra storia nazionale deve essere non solo infinitamente e ripetitivamente riassunta, come fanno i cattedratici che conquistano titoli grazie all’antico e perdurante costume del copiato, ma deve essere discussa e riscritta. Perché la storia si scrive e si riscrive in continuazione. Quella che si tramanda non è storia, è mitologia.
La penso come Giuseppe Galasso, altro storico che non ama i cori: l’idea d’Italia e l’italianità sono sentimenti più antichi dell’unità, affondando le radici nel medio evo. Di ciò si dovrebbe discutere, sulla base di ricerche serie, documentate ed irriverenti, non genuflesse alla retorica del nulla. Ma non ci sono, o sono messe in sordina, perché da noi se la politica è degradata è anche a causa di un mondo culturale tremulo ed asfittico. Sicché, becchiamoci queste celebrazioni canzonettare, facciamo anche la banca delle lapidi (la domanda è sempre la stessa: ironia o Freud?), e cambiamo il nome a Piazza Venezia, così qualche gran professore del futuro insegnerà che Mussolini s’affacciava al balcone sulla piazza dedicata all’unificazione, e dato che la piazza è nota solo per quel balcone, qualche suo degno studente penserà al mascellato come all’unificatore.