Idee e memoria

Moro, un caso non chiuso

Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro continua ad agitare i nostri ricordi e la nostra percezione sulla collocazione internazionale dell’Italia. Non quel che conosciamo, ma quel che ancora non comprendiamo, ci costringe a non considerarlo un caso da consegnare agli storici. Ne abbiamo prova ulteriore leggendo il lavoro di uno storico (o, meglio, di un professore di storia), Agostino Giovagnoli (“Il caso Moro”, Il Mulino), giacché, giunti all’ultima pagina, ci si domanda perché mai abbia voluto iniziarlo.

Fu giusta, egli sostiene, la linea della fermezza. Grazie, lo sapevamo già, avendola sostenuta in quei cinquantacinque giorni. Lo sapevamo già, visto poi come si svolse la storia successiva di quelle Brigare Rosse. Lo sapevamo già nonostante il tormento che ci diede la lettura del libro di Leonardo Sciascia, convincente oltre il possibile nel dimostrare che i messaggi e le lettere dalla “prigione del popolo” erano non solo scritti, ma anche di Aldo Moro. Fu giusto non cedere al ricatto dei terroristi comunisti, al di là del fatto che neanche loro erano interessati ad una trattativa che portasse alla salvezza dell’ostaggio.

E’ vero quel che scrive Giovagnoli: “La responsabilità della sua morte è di chi l’ha ucciso, dei suoi compagni e dei loro sostenitori, nonché dei loro mandanti occulti, se ci furono”, che, a parte la prosa non limpida, significa che la responsabilità della morte di Moro pesa sulle Brigate Rosse. E’ vero, e ben sappiamo che la propaganda di chi sostenne tale responsabilità ricardere su uno Stato deviato ed inquinato, è solo paccottiglia. Ma non si può liquidare con un “se ci furono” il dubbio sugli eventuali mandanti. Anzi, è la stessa domanda ad essere mal posta: non è questione di mandanti (che non ci furono), ma di appoggi, economici ed organizzativi, con residenza estera, di cui i brigatisti poterono giovarsi.

Insomma, era assai più avanti, in quest’analisi, Giorgio Amendola, che, da leader del partito comunista italiano, declinava la linea della fermezza anche per segnare una incancellabile distanza da quanti non solo potevano ritrarsi nell’album di famiglia, ma anche sullo stesso libro paga. Quelle sono le acque limacciose ancora da scandagliare.

Ed a proposito di acque, non ha senso scrivere un libro di storia se poi si liquida, in mezza pagina, sia il lago della Duchessa che il contemporaneo covo di via Gradoli, scoperto in modo improbabile quando l’indirizzo di Gradoli era già stato segnalato da una non credibile seduta spiritica. Chi scrive un libro di storia non mette una notarella che rimanda alle deposizioni di Prodi, ma cerca di avere documenti e testimonianze che spieghino cosa avvenne, chi portò l’informazione, perché si cercò al paese di Gradoli, in una sequenza di demenzialità spiritica ed incapacità operativa (la signora Moro, stradario alla mano, strillava che Gradoli era il nome di una strada romana, dove, poi, effettivamente si trovò una sede brigatista).

L’autore del libro avrà letto la memorialistica brigatista. Magari l’avrà trovata poco convincente. A me pare che in quelle tante pagine ci sono molte cose taciute, ma quelle dette sono coerenti, ed appartengono all’allucinata vicenda umana di persone che credettero realmente di entrare in guerra per battere una dittatura e favore l’avvento di un sistema comunista. Chi ricorda l’Italia di quegli anni sa che la cosa è meno folle di quel che oggi appare. Ma, pur non volendo dar credito ai brigatisti di allora, come si fa a scrivere che essi si distaccarono “dalla tradizione del movimento comunista rivoluzionario”? Di che sta parlando, Giovagnoli? Quei criminali erano perfettamente dentro il brodo rivoluzionario in cui cuocevano anche i militanti della Raf. E non meno azzardato è sostenere che le BR “appaiono un’espressione, ancora incerta, della transizione dal mondo della guerra fredda a quello della globalizzazione”. Ma che scrive? Senza la guerra fredda, senza l’addestramento ed il sostegno dei servizi dell’est, senza lo scontro in atto in quegli anni, nulla si spiega, di questa storia.

L’impressione è che Giovagnoli abbia smarrito non la storia, ma anche la cronologia. Lo testimonia quel che scrive a proposito del Pci, nelle conclusioni: “La storia di questo partito mostra, infatti, che i legami con l’Unione Sovietica e la fisionomia nazionale del comunismo italiano non furono solo conflittuali, ma anche complementari, che il ruolo del Pci fu indubbiamente utile a Mosca, ma servì qualche volta anche all’Italia. Negli anni Ottanta, però, questo duplice ruolo venne esaurendosi progressivamente”. Che non è una tesi sbagliata, anzi. E’ una tesi interessante, certamente opposta a quella che gli eredi del Pci vogliono sostenere. Ma, quando si fa il mestiere dello storico non si può scrivere che quella funzione “venne progressivamente esaurendosi” nel corso di un decennio che vide la fine stessa dell’Unione Sovietica. Giacché equivale a dire che i comunisti italiani smisero di essere strumento nelle mani sovietiche sol perché fu l’Urss a chiudere i battenti. Il che, in questi termini, non lo sostengo neanche io, che se mi dicono che sono anticomunista rispondo: sì, grazie per il complimento.

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