Idee e memoria

Nordest in nero

C’è stato un tempo in cui il nordest italiano, o triveneto, era indicato quale modello del nuovo miracolo economico. L’operosità delle persone, l’antica tradizione a non darsi per vinti, la natura stessa del tessuto industriale, la sua densità, la riproducibilità d’ogni nuova trovata produttiva che giungeva a rivoluzionare modi antichi, ripetitivi ed antieconomici di far le cose, tutto, insomma, sembrava raccontare la storia di un successo destinato a durare.

I tipi umani che volavano su quel successo erano, come sempre capita, diversi fra loro. I Benetton, per esempio, cercarono subito una dimensione culturale e politica, sono stati veloci a capire che la festa non sarebbe durata in eterno ed hanno scelto di dirottare parte delle loro ricchezze nel mondo della finanza (con alterne fortune). Uno come Rosso (“born in the north-east of Italy”), invece, il congiuntivo lo cura con il collirio e bada al sodo, agli affari, che vanno a gonfie vele e lo portano anche in Bocconi, a ricevere un premio, immagino per essere riuscito a far capire agli studenti che l’economia è una cosa, far soldi è altra cosa. Poi ci sono tipi alla Maniero, che in un soprassalto di superbia veneta fu definito capo della “mafia del Brenta”, e che non fece in tempo a finire in galera che già aveva venduto la rete dei suoi affiliati, cercando di salvare il denaro che quella brava gente aveva collaborato ad accumulare.

Come si vede, quindi, pur nella diversità delle persone e delle situazioni, il salto di un certo Veneto dalla povertà alla ricchezza, dall’ossequio parrocchiale alla goduria globale, è stato accompagnato da esagerazioni ed eccessi. Di quelli personali poco me ne cale, mentre hanno rilevanza pubblica quelli destinati ad immortalare il falso mito del triveneto. Guardato a consuntivo, insomma, quel periodo di crescita lascia sul campo molte macerie, e si scopre quel che, a mantenersi lucidi, si sarebbe potuto vedere anche prima: le produzioni erano concentrate in settori che sarebbero stati e sono stati massacrati dalla concorrenza, talché, oggi, pensare di difendere la manifattura tessile dai prodotti importati è un’illusione; i margini di profitto erano dati da un’economia largamente grigia, erano, cioè, frutto dell’inosservanza o dell’aggiramento delle leggi; ad avere fatto da volano allo sviluppo è stato il debutto di un mercato dell’est sul cui tragitto il nordest si è trovato, non per anticipata previsione, ma per collocazione geografica. Però, detta così, anche questa è una faccia della medaglia, e sarebbe errato dimenticare l’altra.

Alla parte nera, nel senso di delinquenziale, del nordest Massimo Carlotto ha dedicato attenzione in molti suoi scritti. In alcuni casi fotografando la trasformazione ed il trasformarsi di una società rurale in provincia ricca, ma pur sempre chiusa, in qualche altro caso rendendo lo spessore di mali che sono nazionali. Adesso, lavorando a quattro mani con Marco Videtta, consegna ai lettori “Nordest” (edizioni e/o), con l’ambizione di scandagliare il mondo dei regolari, dei vincenti, dei forti. Il libro ha una trama incentrata su un omicidio, il cui autore è ricco e potente, racconta di un giovane che avrebbe tutto l’interesse materiale a far finta di niente e, invece, si ribella, indaga e scopre la verità, così come anche dei suoi coetanei, attaccabriga arroganti. Racconta della magistratura e dell’avvocatura locali, decisamente ributtanti, elegge un carabiniere al ruolo di buono vendicatore dei deboli (e su questo si dovrebbe riflettere, non perché i carabinieri sino cattivi, ma perché se il buono è sempre un milite od un commissario, siamo messi maluccio), e descrive anche il giornalismo, in questo caso locale, che fa quasi più schifo di tutti gli altri messi assieme.

Un libro lo si legge per quello che è, per come è scritto, per quel che comunica e per quel che lascia. E “Nordest” è un bel libro, si legge con piacere, anche se l’assassino s’intuisce fin dall’inizio (un suggerimento inconscio arriva dalla Hart de “Il danno”). Insomma, trattasi di letteratura, e l’epoca del tutto sempre e necessariamente politico è passata, per nostra fortuna.

Ma sono gli stessi autori a tenerci, sono loro a suggerire che in quelle pagine si trovano informazioni e situazioni che collocano una storia vera in una trama inventata. E allora, accettando il loro invito, sarà il caso di ricordare che il nordest è quello che è non per l’influenza nefasta delle “grandi famiglie” (“grandi” poi, al più ricche, e neanche tanto), ma perché nessuno è stato capace di indicare una via dello sviluppo e della ricchezza capace di guardare lontano e non dimenticare le leggi. Molti di quegli imprenditori, che sono piccoli o appena medi, hanno colto le opportunità d’arricchimento che la realtà offriva loro, ma non hanno fatto di più perché non ne erano capaci. La seconda generazione non è composta solo di smidollati, cretini e cocainomani (ci sono, ovviamente, ma non può essere una dannazione generazionale), ma se non sono capaci di portare avanti l’azienda di famiglia è, in molti casi, perché quell’azienda avanti non ci può andare. La ricchezza ricercata negli interstizi dell’inefficienza, l’accumulazione possibile in un periodo fortunato, inoltre, non sono stati vantaggi ad esclusivo beneficio degli imprenditori, se ne è giovata tutta intera quella società. Anche questo va detto, perché a spiegarsi la resistenza al cambiamento come frutto di una sorta d’ipnosi collettiva si raccontano bubbole: sono in molti, fra le genti del nordest, a sperare che si possa non cambiare. Purtroppo, o per fortuna (non saprei), si tratta di una vana speranza.

Il libro di Carlotto e Videtta guarda dentro la realtà dei potentati locali, nei sottoscala delle connivenze e delle convenienze, ed è giusto che lo faccia perché in tale ambiente si svolge la storia, ma è fuorviante cercare in quelle pagine l’affresco di un’epoca, la chiave di lettura che lo trasformi in saggio. Ad usar questo tipo di lenti il libro ci perde, perché si potrebbero accusare gli autori di avere tralasciato il resto. Cercarvi un intento didattico e didascalico è fargli un torto.

Anche perché la realtà è sempre contraddittoria e la letteratura non può non risentirne, solo nei tomazzi ideologici tutto fila e tutto torna, nonché tutto è ideale per la pattumiera. Carlotto ha scritto e riscritto sulle torsioni illogiche ed inumane della giustizia italiana, il suo Alligatore ne ha subito il morso e ne porta la cicatrice nelle carni. Eppure, in “Nordest”, se anche gli uomini della giustizia vengono ritratti nella consueta miseria morale, alla fine tocca alla potente signora, figlia del popolo e maritata ai capitali, scandire le parole del luogo comune, secondo il quale è sempre persecutoria e politicizzata la giustizia che punta ad una condanna. E pensare che lei colpevole lo è davvero.

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