La politica estera è il terreno sul quale la politica si esalta, tocca le sue vette più alte, ma anche piomba nei dirupi più profondi. Non è possibile concepire politica estera se non a partire dalla forza politica, economica e militare di ciascun Paese, non è possibile comprenderne le dinamiche se non tenendo in primo piano l’interesse di ciascuno dei protagonisti, ma, al tempo stesso, non è possibile afferrarne il senso se non alla luce della storia e delle idealità di ciascun popolo. E’ il terreno sul quale interessi e sogni più spesso s’incontrano e, naturalmente, si scontrano.
Ancora nel secolo scorso, per non parlare del precedente, il nostro mondo considerava non solo legittimo, ma anche ammirevole l’uso della forza e della violenza per propiziare l’affermazione di un ideale. Abbiamo imparato, pagando alti tributi di sangue e di vite bruciate, che non esiste vittoria nazionale, non esiste equilibrio di non guerra che tenga, perché laddove viene negata la libertà, presto o tardi, i sistemi crollano, le paci si disfano, le rivoluzioni si affermano.
Amante della pace, ove non contraddica i propri bisogni ed i propri sogni, l’essere umano lo è sempre stato, pacifista, invece, lo diventa per rinuncia, per minore considerazione dei bisogni e dei sogni altrui. Il pacifismo come approccio alla politica estera lo abbiamo conosciuto come uno dei derivati della guerra fredda: forte del rifiuto della guerra, le cui macerie ancora fumavano sull’Europa devastata, era debole dell’aver dovuto abbandonare i fratelli rimasti al di là della cortina di ferro a regimi comunisti che, con il passare degli anni, mostravano sempre più la loro fin dal principio evidente vocazione alla dittatura.
Molti hanno guardato alla nostra Europa, alla sua debolezza militare ed alla sua prosperità economica, ed hanno considerato che blandire il nemico fosse più saggio che sfidarlo. Alcuni, del resto, del nemico si mostravano seguaci, sebbene intenzionati, per sicurezza e per benessere, a non spostarsi di certo sulle terre che dominava.
Quello è il periodo in cui gli uomini che avevano a cuore la libertà scelsero l’occidente e scelsero di avere il coraggio della sua difesa militare. La propaganda pacifista li chiamò guerrafondai, perché seppero parlare il linguaggio della forza, perché seppero schierare missili nucleari puntati contro chi ci puntava addosso altri missili nucleari. A quegli uomini dobbiamo la pace, il più lungo periodo di pace della nostra storia.
Non buttatevi alle spalle questa pagina di storia. Non solo perché è a noi così vicina da essere cronaca, ma, anche, perché le ferite che allora si aprirono faticano a cicatrizzarsi, e molti di quei giusti e coraggiosi pagarono assai caro il loro ardire, il loro aver avuto ragione.
Cos’è l’occidente? Non una delimitazione geografica, né un luogo dello spirito, ma una realizzazione politica. L’occidente è la condizione dello Stato democratico che sa essere casa di tutti, credenti in fedi diverse e non credenti, uomini e donne non discriminati per nulla che abbia a che vedere con la loro natura o con le loro convinzioni personali. L’occidente è la patria della democrazia senza aggettivi, che riconosce in sé il proprio valore e che non lo corrompe assumendo in capo allo Stato l’innaturale compito di determinare le finalità morali di tutti. L’occidente è il luogo ove la libertà non ha confini, non potendo essere politica senza essere religiosa, non potendo essere intellettuale senza essere economica.
Nel nostro occidente, ogni giorno, si commettono un miliardo di errori che sembrano voler contraddire la sua stessa natura, e, invece, ne sono la più interessante delle conferme, giacché l’assenza di verità rivelata impone di procedere per tentativi ed approssimazioni, quindi per errori. Negare la possibilità dell’errore, quindi negare la voce di chi lo denuncia, l’appello all’elettore che lo sanzioni, sarebbe negare l’occidente stesso.
C’è costato, impararlo. Mi preoccupa molto, ed in altro contesto potrebbe anche essere divertente, chi cerca disperatamente un’identità occidentale da contrapporre ad altre “civilizzazioni”, e, nel ricercare, risale indietro nel tempo, scavando fra radici le più diverse. Scavando, nella nostra storia, trova di tutto, ed anche il ceppo da cui nacquero i più devastanti totalitarismi fin qui conosciuti, ed il loro fiorire non fu certo impedito dalle più antiche radici, fra le quali anzi, si ritrovano anche le gemme della malapianta. Ma scavando non trova il valore più importante, vale a dire l’occidente per quello che è, per come è stato capace di divenire.
Ciò che noi, oggi, possiamo offrire al mondo non è la granitica certezza del nostro passato, ma il dubbioso e determinato procedere del presente. La nostra identità, se proprio si sente il bisogno di parlarne, risiede proprio in quel che siamo, in quel che abbiamo realizzato, nella nostra capacità di essere società aperta, ed aperta perché forte di quel principio morale cui prima facevo cenno.
Vediamo benissimo i pericoli, enormi, che s’accompagnano all’integralismo islamico, ma sarebbe un cedere alla sua forza (che esiste) considerarlo un fatto religioso e, quindi destoricizzarlo. Al contrario, dobbiamo far prevalere la nostra forza (che è enorme, se consapevole), e stroncarlo inserendolo nella storia, ovvero nel tessuto dei conflitti politici, etnici, d’interessi contrapposti.
L’integralismo religioso non è estraneo alla nostra storia, quindi alla nostra natura. Se lo abbiamo vinto non è perché lo si sia soffocato con una diversa identità, ma perché lo si è spento nella storia, frustrando ogni sua velleità di dominio totale.
Visto con gli occhi di oggi, è abominevole il principio del cuius regio et eius religio. Ma visto con gli occhi d’allora (1555) fu una soluzione assai saggia, giacché tolse velleità universaliste, e di universale dominio politico, alle varie confessioni cristiane.
La nostra forza risiede in queste consapevolezze. Noi sappiamo che l’integralismo mussulmano non avrà mai alcuna possibilità di realizzare un emirato universale, com’è nella mente malata di alcuni suoi fautori. Lo sappiamo con certezza. Il problema è quello di accorciare i tempi necessari affinché questa consapevolezza sia, essa sì, universale. Ed è questa la lotta, e per certi aspetti la guerra, dei nostri giorni.
Non è data politica estera senza idealità, ma non è data neanche senza forza. Lo si diceva all’inizio. Da questo punto di vista l’Unione Europea è in grave ritardo. Anzi, in un certo senso, tale ritardo è connaturato alla sua origine storica.
L’Europa, culla delle più devastanti guerre, ha conquistato la sua pace. Ed ora, quella pace, non vive più il guasto morale dell’avere abbandonato altri europei alla tirannide. La soddisfazione rischia di precipitarci in una condizione nella quale si voglia riporre il nostro benessere al centro di una cittadella fortificata, erigendo mura turrite che presidino i confini e rendano inaggredibile il nostro benessere. Disegno impossibile, oltre che nefando.
E’ vero il contrario: la conquista dell’Unione c’impone di riversare all’esterno la nostra forza, sentendoci parte di una storia mondiale che non si ferma commossa davanti al nostro desiderio di preservare welfare state e non belligeranza. L’Europa del benessere, che si sente in crisi perché non riesce ad accrescere il differenziale di ricchezza con il ritmo di una volta, ha il dovere di porsi i problemi della propria identità istituzionale e della propria forza militare.
Non ponendo questi problemi, o mostrandosi inadatta ad affrontarli e risolverli, si consegna ad un mondo nel quale pensa di essere potenza economica in grado di competere con gli Stati Uniti, o con gl’impetuosamente emergenti mercati asiatici, facendo dipendere la propria sicurezza dagli armamenti statunitensi. Si è mai vista una così sfacciata incapacità di leggere la storia? E pensa, come pensano certe scuole francesi o tedesche, di compensare, o celare, la propria incapacità difensiva alimentando l’avversità, quanto meno politica, nei confronti dell’alleato statunitense. Residuo, questo, di un nazionalismo che non solo vive fuori dalla realtà, ma anche da quell’idea d’Unione cui si è voluto dare una Costituzione.
Il luogo ove si misurerà il futuro dell’Unione Europea c’è. Non è l’allargamento ad est, comunque lo si voglia considerare. Il luogo è sull’altra sponda del Mediterraneo, dove la pace in Medio Oriente è una grande sfida di civiltà, che coinvolge i nostri interessi geopolitici non meno che la nostra stessa identità.
Il diritto all’esistenza ed alla sicurezza della democrazia israeliana non può essere discusso. L’approssimarsi di quella sicurezza deve essere la soluzione del problema del popolo palestinese, sottraendolo alle speculazioni ed alle strumentalizzazioni che hanno, fin qui, sommerso nel sangue ogni tentativo di accordo. Gli europei hanno il dovere di sentirsi parte di quel processo, non limitandosi, egoisticamente, a finanziare uno statu quo che allontani il pericolo di diventare territorio coinvolto nel conflitto.
Gli estremismi cercheranno di rendere impossibile ogni soluzione, ma, esistendo le condizioni per concludere un processo di pace, per dare statualità e sicurezza ad entrambe i popoli, il controllo e la repressione degli estremismi non può e non deve essere un problema esclusivamente statunitense. In terra di Palestina l’interesse dell’occidente è l’interesse della pace e della convivenza. Un interesse comune, che giustifica e richiede un comune impegno.
Anche in questo Tony Blair si conferma un leader europeo capace di interpretare una politica europea. Per farlo Blair deve sfidare l’impopolarità, nel proprio Paese. Ma è, a ben vedere, un’impopolarità relativa, largamente compensata dal dare agli inglesi la visione di una politica (anche interna) che mira allo sviluppo ed alla sicurezza, tenendo assieme realismo ed idealità.
Tante volte, in Italia, ed a giusta ragione, si parla di declino. I dati dell’economia sono impietosi, e confermano quella condizione. Sempre di più gli italiani sono abbandonati ad uno stato di depressione che li induce a guardare al futuro con più patemi che aspettative. Rialzare la testa significa anche essere consapevoli del ruolo che si svolge nel mondo, ed il saldo legame fra l’Italia e l’occidente, quel legame che è stato proprio delle forze democratiche e che ha guidato la crescita (se mi consentite il riferimento) della nostra sinistra democratica, è e resta la bussola per dirigere un cammino che sappia portarci fuori dalla morta gora, nuovamente capaci di essere protagonisti del futuro.