Vuota la piazza di Gianfranco Micciché, stracolme quelle di Beppe Grillo. Attenti a non prendere svarioni, a non sottovalutare l’una e l’altra cosa. E attenti a non credere che sia solo l’innata follia di quell’Italia elevata al cubo, chiamata Sicilia. Dietro i pochi nullafacenti, assettati a debita distanza dall’oratore, dietro le donne che baciano il genovese famoso, ci siamo tutti noi. C’è una parte del nostro destino.
Micciché lo hanno preso in giro, per quella piazza. A me ha fatto simpatia. Ci vuole carattere per affrontare una piazza vuota, mentre altri candidati, come i più quotati Crocetta e Musumeci, in piazza non ci vanno nemmeno, per evitare la stessa sorte. Le piazze sono vuote, in questa campagna elettorale siciliana, che è faccenda interna a un mondo distante. Non deve fare impressione un selciato inespressivo, ma una politica afasica. Un ministro della prima Repubblica raccontava di avere iniziato un comizio con il fatidico “Cittadini!”, per sentirsi apostrofare, dal bar vicino: “chiamami Giuseppe, che fai prima”. Ne rideva, perché quel vuoto sotto al palco non era vuoto sopra al palco. In Sicilia, invece, il vuoto è totale.
Le liste più quotate hanno tutte scoperto di avere condannati e indagati fra i candidati. Delle questioni concrete non parla nessuno. Si contendono i familiari dei morti, posto che nel feretro trovano l’unico contenuto (e posto che quando il morto ammazzato ancora non lo era gli stessi che se ne fregiano lo combattevano). L’opera dei pupi elettorali mette in scena gran sciabolate di latta, fra schieramenti che non solo furono alleati, ma lo saranno ancora. Chiunque vinca governerà, o farà finta di governare, con i propri avversari. Una sola cosa li unisce, oltre alla disperazione e alla bancarotta: Raffaele Lombardo. Eppure, sicché non ci si faccia ingannare, saranno gli stessi che prenderanno la maggioranza dei voti. Posto che la complicissima trinità, tutta assieme, non prenderà la maggioranza dei consensi.
Grillo è diverso. La sua è campagna vitale, di successo. Prenderà meno voti degli altri, ma è l’unica cosa che frizza, mentre il resto stagna. La nuotata (complimenti vivissimi), l’arrampicata e la corsa sono espedienti mediatici, di cui è maestro. Nella sostanza, però, Grillo è andato a lisciare il pelo ispido del superomismo siculo, dei dominati con il complesso di superiorità, dei rassegnati che s’abbandonerebbero alla sommossa, se solo non la ritenessero inutile. E’ andato a usare il linguaggio del separatismo, della Sicilia che non ha bisogno dell’Italia, dei soldi che lo Stato centrale deve a quello regionale. Un pelo sotto cui si nascondono piaghe antiche e pieghe pericolose. Fingendo di non sapere che l’autonomismo siciliano è affondato nel fango per colpa dei siciliani, della loro classe dirigente, per la collettiva attitudine digerente.
Grillo non è un fenomeno dialettale, tanto più che non abla l’idioma locale. Fa il verso alla Catalogna, alle Fiandre, alla Scozia. A quanti rigettano la globalizzazione e ritengono che sia saggio mettere la testa sotto la coperta separatista, negando che la dimensione economica risultante comporterebbe una regressione. Per dirne una: a che tasso d’interesse i mercati presterebbero soldi alla Sicilia? Peggio che mangiare fichi d’india senza sbucciarli. Una corrente separatista reagisce proponendo di stampare moneta. Una minchioneria cosmica, che se prendesse piede (al manicomio) provocherebbe un’inflazione da far impallidire Weimar. Non so se Grillo lo sa, ma suppongo che non gliene freghi granché. Intanto ottiene il risultato: piazze affollate, contro tutte le altre, deserte. Quando Umberto Bossi furoreggiava ripetevo: l’unità nazionale non corre alcun rischio al nord, lo corre al sud. Eccoci.
Gran parte degli elettori siciliani non chiedono al candidato: cosa hai da dirmi, ma: cosa hai da darmi. Nulla. Lombardo sta dando quel poco che rimane. Poi, nulla. Ad alimentare quel genere di voto non è la riconoscenza, ma la speranza. Che scarseggia. Per questo non c’è folla, né ci sarà nelle urne. Un vuoto di cui sono direttamente responsabili i partiti nazionali, tutti, nessuno escluso. Un vuoto che pesa come una colpa sui siciliani, tutti. Intanto l’unità nazionale ha trovato un nuovo collante, i debiti: se alla Sicilia s’imponesse di riconoscere come inesigibili i propri crediti la bancarotta si riverserebbe sull’Italia; se lo Stato smettesse d’elargire quattrini (da ultimo la settimana scorsa) i potenti dell’isola finirebbero sbranati dalla plebe che allevarono. Allora sì che le piazze tornerebbero gremite. Pronte per la piazzata mortale.