Schizzando, con tratto rapido e tinte vivaci, un ritratto di Pietro Ingrao, della sua lunga battaglia politica, Antonio Galdo ci consegna una preziosa descrizione di gran parte degli equivoci e delle debolezze culturali della sinistra italiana. Un libro (“Pietro Ingrao, il compagno disarmato”, Sperling & Kupfer Editori) da meditare. Da meditare nelle enormi contraddizioni del personaggio, che furono le contraddizioni della sinistra ideologica e che sono la zavorra che rallenta l’approdo ad una forza capace di governare una democrazia occidentale.
Galdo ricorda i suoi anni giovanili, ed il naturale riconoscersi dei giovani comunisti nelle posizioni di Ingrao. Io ricordo gli anni giovanili di chi comunista non è mai stato, ma che sognando una forza democratica di sinistra guardava, altrettanto naturalmente, a Giorgio Amendola. L’attenzione ai movimenti, l’inseguimento dei più diversi fermenti civili, contrapposte alla necessità di un ferreo realismo, che consentisse di approntare strumenti adatti al governo dell’economia. Mi pare abbia avuto ragione Amendola. L’esasperazione dell’identità, intrisa di diversità, contrapposta all’opportunità di non rompere mai il dialogo con i socialisti, puntando alla creazione di un partito unico della sinistra. Ed aveva, ancora, ragione Amendola. Ma le ragioni del figlio di Giovanni Amendola, così come quelle del nipote di un mazziniano e garibaldino, si bruciavano nel rogo della fedeltà al comunismo sovietico. Inutile addolcire la pillola, inutile, come ancora di recente prova a fare D’Alema, mescolare umori e posizioni politiche, la realtà è solida e cruda: nessuno dei leaders comunisti italiani vide e comprese il crollo sovietico, nessuno seppe prendere le distanze dall’incubo dittatoriale e sterminatore, nessuno seppe uscire dal togliattismo. E tutti ci annegarono.
Ingrao, oggi, ammette due grandi errori: il primo, quello di essersi schierato dalla parte sovietica quando la potenza militare invase l’Ungheria; il secondo, quello di non avere riconosciuto la matrice comunista del terrorismo rosso italiano. Fermarsi a dire che sono due errori gravi non serve, e, del resto, con grande onestà, lo fa lo stesso Ingrao. Ma è utile rilevare che l’approdo odierno ad un pacifismo senza distinzioni, fatto di gandhiana repulsione verso la violenza, non è solo un percorso individuale, ma collettivo. Ancora una volta Ingrao si ritrova idealmente alla testa di quella parte della sinistra che lo riconobbe come maestro. Ed ancora una volta la porta fuori dal terreno della politica, la getta in un irrealismo che nasce dal rifiuto della realtà.
Ma che senso ha la non violenza in bocca a chi difese (e giustamente) la guerra partigiana? Sbagliava, chi aveva imbracciato il fucile? Certo che no. Tanta non violenza è, in realtà, il riflesso della colpa per aver visto crescere, in Italia, una violenza politica ed armata, irrigata dalle parole di quanti, Ingrao compresero, pubblicamente dubitarono della democrazia italiana. Sbagliavano allora e sbaglia oggi. Con coerenza, si può dire. Certo, si può ben dissentire dalle modalità utilizzate da alcune democrazie occidentali nel portare la guerra al fondamentalismo islamico, ma non si può farlo, assolutamente non si può, rifiutando l’uso della forza laddove i diritti degli individui vengono negati e le loro gole tagliate. E’ un non senso, ed è un non senso che stride micidialmente in bocca ad un comunista. Questo, in fondo, il punto di caduta della parabola: per non condannare se stessi si nega se stessi.
Una prova? Eccola: ripensando alla propria vita Ingrao parla di “Un destino di brucianti sconfitte”. Invece no, il suo, come quello della sua generazione comunista, è stato un destino di molte vittorie, ma di enormi torti. Per non indagare i torti si preferisce descriversi sconfitti. Il che passa attraverso il travisamento della realtà. Come quando afferma: “Certo, i soldi di Mosca servivano e contavano, e il vincolo della dipendenza economica sarà spezzato molto più tardi soltanto da Enrico Berlinguer”. Ma non è vero. I soldi di Mosca, soldi sporchi di sangue, continuarono ad arrivare fin dopo il crollo del muro di Berlino, e furono sempre, fino alla fine, fin dopo la morte di Berlinguer, tanti ed influenti. Furono soldi determinanti per la costruzione del movimento pacifista che si oppose allo schieramento dei missini nucleari occidentali, destinati a compensare gli SS20 già schierati da Breznev, e puntati contro di noi. Se lo ricorda, Ingrao, quel pacifismo? non sente il bisogno di prenderne le distanze? Attenzione, però, non è in discussione l’onesta intellettuale di Ingrao, tant’è che lui stesso ricorda l’opposizione che mosse a Berlinguer quando quest’ultimo si pronunciò a favore della Nato. Quelle di Berlinguer furono parole tronche ed insufficienti, eppure per Ingrao eccessive e pericolose. Meglio definirsi sconfitti, che guardare la profondità dell’errore.
Le pagine di Galdo devono essere meditate in chiave non solo politica, ma più profondamente umana. La ricostruzione di una vita è, a tratti, commovente, e c’è qualche cosa d’attraente in quel mondo in cui parenti, amici, conoscenti, tutti erano comunisti. A guardarla da fuori è una realtà opprimente, totalizzante, l’esatto contrario di forza morale ed intellettuale, che non solo tollera, ma cerca il diverso. Visto da dentro, però, è il mondo dei giusti, dei buoni sentimenti, delle battaglie per il progresso, un’atmosfera che, da sola, si giustifica ed esalta. Solo in quella situazione poteva crescere quell’odioso complesso di superiorità morale che, ignaro degli errori e delle tragedie, ignaro dell’immoralità in sé insita, ancora oggi trafigge le carni della sinistra. Ingrao fa un grande regalo a portarlo così drammaticamente alla superficie, e sarebbe uno spreco non cogliere il dono.
Tutto, davvero tutto, mi divide da Pietro Ingrao. Il passato come il presente. Ma ad ogni parola sento il vibrare di una vita che ha suonato solo politica, e che ha suonato politica perché non ha mai smesso di credere che il mondo potrebbe essere migliore di quello che è. In questo senso di ingraiani ne sono rimasti pochi, ma fra noi ci riconosciamo.