Idee e memoria

Più reazionari che rivoluzionari

La riforma dell’Università, approvata alla Camera e ora in attesa d’essere votata al Senato, non è la soluzione dei mali, ma è un notevole passo in avanti. Nell’ultima giornata di votazioni il governo è stato battuto due volte, altre nelle sedute precedenti. Il testo ne esce ammaccato, ma non stravolto.

La riforma prevede la necessità di numerosi decreti attuativi, ciò significa che prenderà forma reale in un futuro difficilmente collocabile nel tempo, visto che il governo non si trova in un periodo di solida stabilità. In altre parole, se anche l’approvazione definita fosse immediata, non altrettanto si potrebbe dire della sua efficacia. Ma ha un merito: avere rotto quel muro di conservazione silente e dissipazione indolente che ha condotto la nostra università a scendere nelle classifiche mondiali, fino a livelli vergognosi.

Gli studenti che protestano avrebbero ragione, se rivolgessero la loro rabbia contro chi non provvede in fretta e non fa abbastanza. Sarebbero la punta avanzata di un’Italia che intende progredire e correre, se chiedessero la cancellazione del valore legale del titolo di studio, la fine del “pezzo di carta”, la meritocrazia per gli studenti, ma anche per i professori. Se reclamassero d’essere valutati per quel che valgono e sanno, da docenti il cui valore e le cui conoscenze siano state a loro volta accertate. I cortei sarebbero benedetti se si dirigessero a chiedere la fine dell’università con i parenti in cattedra, la cancellazione di quelle a vita, l’avvicinarsi del mondo produttivo a quello formativo, le facilitazioni per il finanziamento degli istituti migliori, la cancellazione dei corsi burletta, concepiti solo per far insegnare chi non sarebbe capace neanche di studiare. E sarebbe bene mettere le università a soqquadro per far sapere al corpo docente che è finita l’epoca in cui il rettore è eletto dai professori, facendone, al tempo stesso, un prodotto e un ostaggio delle camarille cattedratiche e degli interessi corporativi. Ma gli studenti, o, meglio, quelli che hanno animato le vie e le piazze nella giornata di ieri, reclamavano l’esatto contrario. Erano i figli legittimi di chi ha costruito l’università di oggi: la più grande fregatura ai danni dei meritevoli, il più prezioso regalo a beneficio dei protetti e privilegiati.

E sappiano, loro che cantavano “Bella ciao”, che assediare e tentare di violare il Parlamento è una condotta da fascisti. Sappiano che reclamare l’università pubblica, immaginando che sia sinonimo di aperta e a basso costo, significa difendere un sistema nel quale la spesa finisce tutta a pagare stipendi e costi fissi, togliendo ossigeno alla ricerca. Siamo arrivati al paradosso di avere migliaia e migliaia di ricercatori con un contratto a tempo indeterminato (a vita), ma senza soldi per la ricerca. E invece di chiedere che questo sistema sia smontato si chiede che quei ricercatori vadano in cattedra, così precludendo ogni possibilità ai più giovani.

E’ grazie a questo tipo di università pubblica che le materie insegnate sono il doppio della media europea e in corsi di laurea sono raddoppiati negli ultimi dieci anni. Credono che ciò significhi più cultura? Significa solo più presa in giro, a carico della collettività. La riforma Gelmini fa qualche passo. Porterà in cattedra molti ricercatori, ma non proprio tutti. Non introduce una vera competizione fra atenei, ma, almeno, prevede soggetti esterni al corpo insegnate per far le valutazioni dell’insieme. Pone un limite al mandato dei rettori, che di magnifico hanno il loro fallimento, stabilisce che se hai una cattedra ti toccherà anche andarci (oggi neanche gli esami sono svolti in modo regolare, visto che per fare in fretta e smaltire il traffico le commissioni sono spesso irregolari), introduce la figura del direttore generale, responsabile per le proprie azioni. Troppo poco, secondo me. Troppo, invece, secondo quelli che lanciavano oggetti essendo a corto d’idee.

Questa partita politica sarà ricordata per l’avvilente spettacolo di soggetti che si sono arrampicati su una scaletta, per farsi fotografare dall’alto nel mentre portavano il loro contributo al vuoto mentale collettivo. Giunti sul tetto cantavano, accanto ai ricercatori che chiedevano sistemazioni eterne. In un qualsiasi sistema degno un ricercatore le fuggirebbe, le considererebbe una prigione, reclamando libertà culturale e di mercato. Ma, appunto, sarebbero ricercatori, non tettaroli ciuccianti spesa pubblica.

Il guaio vero è che i giovani fanno fatica a capire che il mondo dei loro genitori e dei loro zii è tanto viziato quanto insostenibile, che la spesa pubblica al posto della produzione di ricchezza s’è infranta sugli scogli della globalizzazione e che la loro via d’uscita consiste nell’affrontarla attrezzati per vincerne le sfide, non nello schivarla restandosene in tane indebitate. Non sarebbe male avere giovani rivoluzionari, intendendosi per tali quelli di dotati di coraggio nell’osare. Invece occupano la scena quelli frignanti e reazionari, desiderosi di fermare il mondo e mettersi a cuccia.

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