Idee e memoria

Politica in e della Tv

Passeranno alla storia come le elezioni dei pasticci, nessuno dei quali innocente. E occuperanno la cronaca a lungo, con i ricorsi. Ora vince quello presentato da Sky e La7, che avevano eccepito contro il regolamento emanato dall’Autorità delle comunicazioni (Agcom), con il quale si proibivano i dibattiti televisivi, durante le elezioni. Anche in questo caso il comportamento di ciascuno può sembrare irrazionale, se non si comprende la fonte di tante discussioni: la Rai. Qui, nella televisione di Stato, a spese dei cittadini, il problema non è quello di come far parlare i politici, che sono ovviamente di parte, ma di come fermare i conduttori, i contenitori che pretendono d’essere giornalistici e sono, in realtà, propagandistici.

L’errore consiste nel pensare di fermarli proibendo a tutti di parlare di politica, o d’attualità. La logica vorrebbe l’esatto contrario: nel corso della campagna elettorale se ne discute in misura maggiore, non minore. E non credo nemmeno che tali dibattiti debbano essere assoggettati all’ipocrita disciplina della par condicio, utile solo a far finta che tutti siano eguali e che il mestiere del giornalista sia come quello del vigile urbano: dirigere il traffico. Solo un Paese che ignora i fondamenti della libertà, può avere concepito una tale normativa (che, non a caso, nacque per togliere, non per dare la parola). Si deve distinguere, se si vuole parlare seriamente, il pluralismo del sistema dal pluralismo interno ad ogni singola trasmissione.

Il primo è indispensabile, in democrazia, e comporta che le fonti d’informazione facciano capo a proprietà diverse, in concorrenza fra di loro. Da noi manca, perché la metà del mercato è occupata dalla televisione di Stato, che andrebbe privatizzata, e l’altra metà è dominata da un soggetto privato, Mediaset, che solo in quella condizione può competere con l’ex monopolista. Molti falsi profeti della libertà hanno ripetuto, per decenni, che la soluzione consiste nel macellare il concorrente privato. Che razza di ragionamento è? La via maestra è diversa: si rimuova l’azienda statale e s’imponga un più severo antitrust.

Fatto questo, e realizzato il pluralismo nel mercato, non è detto che si debba imporre anche il pluralismo interno a ciascuna trasmissione, o a ciascuna emittente. Posso ben fondare una televisione di parte, come esistono i giornali, ospitando chi mi pare. Nell’era analogica era la limitatezza (più immaginaria che reale) degli spazi a imporre prudenza, ma in era digitale è puro autoritarismo censorio. Se, comunque, avverto quell’esigenza, ed è naturale che la si avverta finché esiste la Rai, il punto rilevante non consiste in quanti minuti parla la destra e in quanti la sinistra, ma quale spazio prende il conduttore, che ne ha a piacimento per far pubblicità: assai spesso a se stesso, di frequente alla propria parte politica. Lì si realizza un danno alla collettività, perché si tende a far passare la voce di quello che sta in piedi, e zittisce gli altri, come quella della verità, e quella degli ospiti, seduti e non di rado esclusi, come un attentato alla saggezza degli elettori.

Il sistema che abbiamo sotto agli occhi, alla fine, è illiberale e irragionevole. Ma non se ne esce dettando regole cervellotiche o, addirittura, proibendo di fare dibattiti e approfondimenti, bensì superando il mercato bloccato, ripensando radicalmente l’emittente pubblica (chiudendo la mangiatoia), e aprendo il mercato alla libertà e alla competizione. Inutile aggiungere che, per un dibattito simile, non m’inviteranno mai.

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