Roberta Tatafiore, ragionante antiproibizionista, mi sollecita su temi per i quali ben accetto una discussione. Anzi, dovremmo essere proprio noi, laici, a dar l’esempio di come questi problemi possono essere discussi senza ricorrere a estremizzazioni ed astrattismi.
Dunque, il mio richiamo all’indisponibilità del bene vita non è assolutamente inconciliabile con l’accettazione dell’eutanasia. La chiave sta proprio nel comprendere che un laico (ovvero un non chierico di alcuna confessione) non ha valori assoluti, ma convinzioni razionali. I valori di cui si nutre, ai quali ispira la propria vita, sono valori relativi, il che non significa cangianti, tant’è che possono essere praticati solo grazie ad un assoluto rigore, prima di tutto verso se stessi.
Nel caso in cui si pone un problema d’eutanasia, evidentemente, la vita ha già perso la sua pienezza, e difatti nessuno può ragionevolmente equiparare l’eutanasia all’omicidio od al suicidio. Metto, quindi, sulla bilancia da una parte la vita, dall’altra la sofferenza senza speranza e, spesso, l’umiliazione della vita stessa. Chi ha la fede dice che la vita è nelle mani di un dio, pertanto l’uomo non può intervenire. Chi non ha le stesse certezze pensa che si debba rispettare una valutazione sull’effettiva pendenza di quella bilancia. Il che, naturalmente, non significa accettare né l’omicidio, né il suicidio.
Roberta, poi, fa una serie di esempi relativi a persone che hanno una dipendenza (il tabagista, l’alcolista, il depresso, l’obeso ed il cretino) e che non sanno rinunciarvi. Poi le mette sullo stesso piano dei drogati e si domanda perché dovremmo consentire ai primi quel che mi rifiuto di consentire ai secondi. Occorre distinguere. Considero la depressione e l’obesità (che non è la grassezza) non delle scelte, ma delle malattie, mentre la cretineria può addirittura essere un dono di natura (ricordo un bel disegno di Maccari, raffigurante un signore: “imbecille fino all’eroismo”). Non considero malattie né il tabagismo né l’alcolismo, che pure sono delle dipendenze.
Qui il discorso sarebbe lungo e non sia mai che si sottovaluti la devastante piaga dell’alcolismo, eppure anche questa, che ha esiti gravi e talora mortali, conserva due radicali differenze con alcune droghe (tipo eroina, cocaina ed anfetamine sintetiche): prima di tutto l’insorgere della dipendenza fisica richiede molto tempo per l’alcol e pochissimo tempo per le altre droghe; secondo l’alcol non ha effetti immediatamente lesivi delle capacità celebrali, come, invece, le pasticche da discotecari.
Attenzione, non intendo farmi trascinare sul terreno di chi difende una dipendenza e ne avversa un’altra. Non è questo il punto. Ma è un errore far parallelismi che non tengono conto di diversità enormi e non riducibili.
Le sostanze, infine, sono solo la parte minore del problema dipendenza, laddove la maggiore sta nell’essere umano che le assume. Ma se un ragazzino od una ragazzina prendono sostanze cerebrolesive, o che nel breve volgere di qualche volta sono in grado di far insorgere una crisi d’astinenza, non è la stessa cosa che bevano un bicchiere di troppo o prendano una sbornia. Proprio non è la stessa cosa.
Affermo, sotto la mia responsabilità, di avere scritto queste righe in stato di sobrietà, e di sperare che Roberta voglia continuare questa tenzone.
Così come spero che torni ad incrociar le lame Vincenzo Sammartino, amico attento ed appassionato, curandosi poco dei momenti elettorali e non rimandando quel che non è rimandabile. Lui sa bene essere una tautologia l’affermare che una proibizione crea spazi alla criminalità (cioè alla violazione della proibizione stessa), ma non per questo, di grazia, potremo fare mai a meno delle proibizioni. Mi pare più interessante ragionare su un altro quesito: cosa gli fa credere che gli utilizzatori di una sostanza proibita sarebbero più numerosi degli utilizzatori di quella medesima sostanza se non fosse proibita? A me pare l’esatto contrario.
Negli USA dopo la fine del proibizionismo gli alcolizzati aumentarono, non diminuirono. Come è del tutto ovvio. Quindi il problema politico che devo pormi è se sono disposto o meno a barattare un minore spazio alla criminalità con un maggior numero di tossicodipendenti. Io non sono disposto.
Sarei più cauto nell’immaginare l’esistenza di gruppi di persone immancabilmente predisposti al naufragio, o alla fuga dalla realtà. Sammartino è troppo lucido e coerente democratico per avere voluto dire nulla di questo, ma lo avverto che il darvinismo sociale può portare ad esiti davvero poco commendevoli. Di ragazzi drogati ne ho frequentati e ne frequento in quantità industriali, e non ho mai colto i segni della predisposizione. Sono evidenti, invece, i segni del disastro che la droga ha introdotto nelle loro vite. Cerco di non dimenticarli, quando parlo di queste cose.
Infine, mi sono accorto, girando per mari e per monti, per valli e campagne, che le leggi sulla tutela dell’ambiente e la salvaguardia paesaggistica non sono riuscite ad eliminare la malapianta dell’abusivismo e dello scempio. Proprio non ci si riesce. Che facciamo, abroghiamo le leggi?