9 febbraio 1849. A molti questa data non dice niente, a moltissimi. Forse a quasi tutti.
Di recente, anche grazie agli sforzi del Presidente della Repubblica, si è voluto riscoprire l’inno nazionale, ma vi è qualche cosa di sbagliato, se non addirittura di malato nel fatto che non si ricordi chi ne fu l’autore: quel Goffredo Mameli che chiamò Giuseppe Mazzini a Roma e cui il leader democratico e rivoluzionario chiese di scrivere un inno per la Repubblica Romana, quel giovane che, non ancora ventiduenne, muore il 6 luglio, a causa delle ferite riportate nel mentre difendeva, sul Gianicolo, la Roma repubblicana contro il papa, Pio IX, ed il tradimento francese. Si dovrebbe ricordarlo, così aiutandosi a comprendere il significato di quel 9 febbraio 1849.
Con la Repubblica Romana Mazzini scrisse una pagina davvero anomala della storia italiana. Lo chiamarono per eleggerlo dittatore, ma egli rifiutò con sdegno, avversario com’era d’ogni dittatura, nacque così il triunvirato, con Saffi ed Armellini. Aveva in mano l’Assemblea, ma quando dissentì da qualche decisione preferì piegarsi al volere della maggioranza piuttosto che piegare la maggioranza ai propri voleri. Aveva come nemico il papa, che lo voleva morto, ma non esitò a riconoscere i diritti della chiesa romana e le guarentigie che ne garantissero l’opera: prima di Cavour affermò il principio di una libertà religiosa che fosse indipendente dal potere statale. Ebbe avversari i francesi, alleatisi con il papa ma, provocando il furore di Giuseppe Garibaldi, volle proteggere i francesi presenti a Roma e volle prestare fede alla parola di militari che marciavano sotto un tricolore con il motto lamartiniano. Insomma, nel giusto come nell’errato, Mazzini volle una Repubblica che non fosse settaria e faziosa, che sapesse parlare agli uomini liberi, ovunque si trovassero, l’esatto contrario dello stereotipo cospirativo e tenebroso che c’è stato tramandato da una storiografia figlia di un’Italia diversa.
Ma se il fascismo volle piegare Mazzini al mito del nazionalismo, la Repubblica, culturalmente assediata da due chiese, nessuna delle quali risorgimentale, preferì ignorare il significato politico di quei mesi romani, preferì fare di Mazzini l’icona rispettabile ma polverosa di un mondo che non c’è più. Ed invece, semmai, quel mondo non c’è mai stato, e se c’è stato ha vissuto nella battaglia di minoranze democratiche che oggi sembrano stanche, forse anche vinte: sconfitte dall’incapacità di credere nelle proprie idee.
Non siamo fra quanti abbiano mai amato accender lumini sotto l’immaginetta di questo o di quello. Oltre tutto non solo alla passione ideale di Mazzini, e non solo alla passione guerriera di Garibaldi (e fra i due non correva buon sangue) si deve rivolgere la gratitudine dei posteri. Il lavoro svolto da Cavour seppe coronare il loro sogno. Non è questione di culti, bensì di vedere quanto grande possa essere il risultato politico di minoranze che sappiano mettersi in sintonia con umori profondi e correnti della storia, di comprendere quanto la convinzione ed il coraggio possano supplire all’assenza di forza apparente.
Può darsi che il 9 febbraio continui a non dir niente a molti, ma non servirà a niente incitare gli italiani ad un patriottismo di facciata, ad uno sventolio festaiolo del tricolore, giacché mai potrà esistere l’orgoglio di un’identità che abbia smarrito se stessa. Non sarebbe male tornare a riflettere su quelle vicende, tornare a leggere (o, forse, leggere per la prima volta) le pagine di chi immaginò l’Europa come terra di libertà.
Si, lo so, Mazzini e Garibaldi venivano chiamati, da Marx, Teopompo e Pidocchino. Del primo s’irride la fede in Dio e nel Popolo, del secondo l’armeggiare itinerante. Nessuno che tenga i loro ritratti nella cameretta, mentre il barbuto di Treviri ancora campeggia sul muro di qualche tardone. Al terzo ci si può rifare, sia pure con qualche imbarazzo; ai primi due no, proprio non sta bene. Eppure è nella battaglia dei primi due che affondano le radici dell’Italia libera, che se i presunti seguaci del terzo non fossero stati sconfitti dalla storia e dalle democrazie, quelle radici sarebbero state bruciate.
No, non accendiamo lumini votivi, ma nel passato troviamo un’identità cui portare rispetto e di cui essere degni.