Se non facciamo la rivoluzione, nel mondo dell’istruzione, e se non ci sbrighiamo a farla, ci ritroveremo sempre più poveri e marginalizzati, con i nostri ragazzi emarginati dalla competizione globale. Quando, con i test Pisa, si fotografa la capacità di trasmettere cultura e conoscenza la pellicola resta impressionata dall’ignoranza. Siamo in fondo alle graduatorie dei Paesi sviluppati. Quando, con i dati Ocse appena resi noti, si fotografa la spesa il rullino riporta una serie di assurdità e sprechi. Eppure, proprio questi ultimi numeri contengono, per contrasto, la soluzione e la via d’uscita.
Se si prende il solo parametro della spesa pubblica destinata all’istruzione, calcolata in percentuale sul prodotto interno lordo, se ne traggono conseguenze completamente sbagliate. L’Italia è ferma al 4,5 mentre la media Ocse è del 5,7. Negli Stati Uniti spendono il 7,6. Messa così non resta che constatare la nostra spilorceria istruttiva, la costante (nel tempo) miopia formativa e la necessità di aumentare la spesa. Errore, perché se mettessimo più soldi, senza fare la rivoluzione, sarebbero buttati via.
L’80% della spesa se ne va in stipendi dei docenti (la media Ocse è inferiore di 10 punti), che, però, se si guardano le buste paga, sono sotto pagati. Un docente della scuola superiore comincia la carriera con circa 28 mila euro e solo alla fine arriva a 44 mila. La media Ocse segnala un inizio con 35 mila euro, che diventano 54 mila dopo 24 anni, e non dopo 35, come da noi. In Germania quei professori cominciano con 51 mila e arrivano a 72 mila dopo 28 anni. Anche qui, se ci si limita a leggere questi dati, non resta che una ricetta: spendere e pagare di più. Ma sarebbe sbagliato.
I primi indizi di quale sia realmente il problema si scorgono esaminando la spesa annua media per studente: 7.950 dollari in Italia, 8.200 nella media Ocse. Differenza piccola. Se si escludesse l’università, saremmo nella media. Attenzione, che qui si arriva al punto: la spesa media cumulativa per studente, dalle elementari alla maturità, è da noi pari a 101 mila dollari, mentre la media è 94.500. Ma se spendiamo e paghiamo meno degli altri, come fa uno studente a costarci di più? Nella scuola primaria il costo salariale (dei suoi docenti) per studente è di 2.876 dollari, 568 più della media, ma il salario medio è inferiore di 497 alla media negli stessi Paesi. Mistero? Si replica alla scuola media: costo salariale per studente pari a 3.495 dollari, contro i 2.950 della media. Ed ecco il trucco: troppi docenti, poche ore (medie) d’insegnamento ciascuno e troppe di scuola.
Fra i 7 e i 14 anni si passano, da noi, 8.200 ore sui banchi, contro la media Ocse di 6.777. Solo in Israele si sta di più a scuola. Abbiamo 10,6 studenti per insegnante, contro la media di 16,4. Il tutto, è bene ricordarlo, per ottenere il seguente risultato: più docenti per alunno, più ore di permanenza a scuola e i peggiori rendimenti. Se in un sistema di questo tipo si pompassero più soldi non si farebbe che allargare la piaga. Ma, ogni anno, tutti parlano come se la realtà fosse quella opposta, compreso questo, iniziato all’insegna del volere immettere in ruolo i così detti precari. Ecco, appunto, questa è la politica dello sfascio scolastico, queste sono le scelte da impedire, e non solo per ragioni contabili, perché contrarie sia all’interesse degli studenti che a quello di chi fa seriamente l’insegnante.
Ciascun docente è pagato poco, ma se calcoliamo il costo non per testa, ma per ora d’insegnamento, scopriamo che le differenze si annullano. Quindi: i docenti italiani fanno carriera per anzianità e non per merito, e guadagnano poco anche perché lavorano poco. Tutte e due queste condizioni sono umilianti per quelli che sono in cattedra con la testa e con il cuore, anziché come mero ripiego, per non avere trovato altro.
Tralascio l’università, dove la situazione è peggiore, ma strutturalmente diversa. Come si fa la rivoluzione? Affidando la gestione del personale a strutture e logiche lontane dal pubblico impiego. Trattiamo i docenti come professionisti e amministriamoli seguendo le regole del miglior sfruttamento delle risorse umane. Paghiamoli per quel che lavorano e valgono, consentendo guadagni che non siano il mero riflesso dell’invecchiamento. Si può fare. In Francia ci hanno provato ed hanno ottenuto buoni risultati. Si esce dall’anonimato clientelare e si entra nella personalizzazione professionale.
Secondo pilastro della rivoluzione: la digitalizzazione della didattica. Attualmente siamo trattati come terzo mondo, con fornitori di lavagne elettroniche che ci spacciamo, profumatamente pagati, i fondi di magazzino. Nessuno se ne accorge perché nessuno le usa, non, almeno, come si dovrebbe, ovvero connesse fra loro e in rete. Con questi strumenti non solo si conseguirebbero enormi economie (perché alla spesa pubblica deve essere sommata quella delle famiglie, in buona parte assorbita da libri di testo che si utilizzano assai limitatamente), ma si aprirebbe uno spazio prezioso sia per l’autonomia dei docenti che per la loro valorizzazione.
Con la prima rivoluzione si farebbero entrare le sane logiche del mercato nella scuola, con la seconda si aprirebbe un mercato per chi lavora nella scuola. Se, invece, conserviamo strutture vergognosamente inefficienti e, forti dei dati Ocse, investiamo in quelle più quattrini pubblici non otteniamo che il rincorrersi d’ignoranza e sprechi, consolidando un sistema la cui riforma resterà un intento da programma elettorale.